Don Matteo sta nel Pantheon con altri, dal maresciallo Rocca al commissario Montalbano, tutti eroi del “bene comune istituzionalizzato”, alle prese col delitto, e cioè col rapporto fra l’uomo e il male, e con i relativi turbamenti della comunità. In poche parole, come ricorderà chi ha fatto in tempo a vedere Carosello, siamo all’eterno schema del Gigante benefico (“aiutaci tu”) che risolveva i danni inflitti dal malvagio Joe Condor a un piccolo villaggio; analogamente, il campo d’azione dei nostri risolutivi preti, marescialli e commissari è la provincia, dove tutti si conoscono e le rotture della quiete appaiono spiegabili ed eccezionali, anziché anonime e automatiche come nella condizione urbana.
In queste fiction si esprime in sostanza una ideologia costituita di utopia provincialista, di ancoraggio alle istituzioni della sicurezza, di relazioni sociali centrate sulla persona. La stessa ideologia che si intravede in molti altri programmi di Rai1, l’unica erede dell’idea di Servizio Pubblico Comunitario cara, innanzitutto ma non solo, agli operatori di matrice “cattolica”. Una idea peraltro ben radicata nel pubblico visto il successo, dunque, anzi il successone, del formidabile 34% di share appena ottenuto. Tuttavia, proprio approfittando del successo, vale la pena di porsi un problema: dei 9,5 milioni di spettatori raccolti fra le 21.30 e le 23, quattro milioni sono costituiti dal pubblico più anziano e meno istruito (una coincidenza strutturale data lo sviluppo relativamente recente della istruzione obbligatoria in Italia) mentre tutte le altre fasce d’età non concedono a Terence Hill e Belen nulla più di una buona attenzione.
In altri termini, nel successo di Don Matteo si manifesta con particolare chiarezza il limite di cui soffre l’insediamento sociale del Servizio Pubblico. Un limite riconducibile a nostro avviso allo “scisma generalista” dei primi anni ’80, quando – per dirla molto in breve – la Rai, tranne la meteora della Terza Rete, si arroccò nei propri miti fondativi (oggi li racchiuderemmo nella definizione di don matteismo), mentre la tv commerciale indossò i panni dell’innovazione e fissò con le giovani generazioni, a partire da quella dei Puffi e di Drive In, un rapporto privilegiato che tuttora premia la sua programmazione. Da qui le domande: questa divisione dei ruoli nella componente generalista della tv italiana è un dato inalterabile o può essere cambiato? Ciascuno continuerà a tenersi il suo? I pubblici continueranno a incrociarsi solo per caso? E questa separatezza conviene alla tenuta della società oppure costituisce un problema da risolvere?
Domande attuali? Forse. Del resto, chi non si preoccuperebbe di alleviare il carico che grava sulle spalle del povero don Matteo in termini di legittimazione della esistenza di un Servizio Pubblico?