L’11 gennaio di diciassette anni fa moriva Fabrizio De André, il più importante cantautore italiano. Era il più importante per molti aspetti: non è qui interessante capire se fosse il più bravo, ma per l’approccio al proprio mestiere e una serie di elementi di stile, di momento e di modo in cui i suoi brani sono arrivati al successo, De André può essere indicato come l’artista più rappresentativo per un intero genere di canzone.
Questo scritto però non parlerà solo di lui. Nel mese di gennaio sono venuti a mancare nel tempo molti dei migliori artisti della canzone d’autore italiana, per esempio Ivan Graziani, Giorgio Gaber, Pino Daniele, Piero Ciampi o Luigi Tenco. Mi è venuta così una riflessione in questi giorni: ci sono artisti che dopo la morte vengono sopravvalutati per via dello sciacallaggio di certo cattivo giornalismo, e altri che accrescono “autonomamente” in chi resta la percezione del proprio valore, solo a causa della loro mancanza, come se l’assenza fisica acuisse la sensibilità del fruitore attento.
Intendiamoci: il fruitore se è attento lo è anche quando quel cantautore è in vita. Il fatto è che, quando un ottimo artista ci lascia, crea un vuoto colmabile unicamente con la sua presenza, per la sola ragione che lui sapeva fare certe cose e altri no. Succede quando ad andarsene sono artisti con una dote su tutte: l’autenticità.
Proviamo a ragionarci su. Ho già parlato su queste pagine del concetto di “autentico” in contrapposizione a quello di “sincero”. Qui ci basterà tener presente che qualcosa di “autentico” rimanda a un autore certo, preso in considerazione per la sua capacità di “saper fare” l’oggetto unico di cui si discute (nel caso di De André, quindi, scrivere ed eseguire canzoni), su cui si riflette o che si vende all’incanto. “Autenticare” un’opera d’arte, d’altronde, significa attribuirla a un autore, attestare un’eccellenza o anche semplicemente un’esclusività creatrice. Un autore “autentico” (in cui c’è consequenzialità riconoscibile e poderosa tra lo stile e il contenuto) sarà quindi una maestranza preziosa per una certa comunità di persone, fino a diventare anche civilmente insostituibile, nell’ordine di idee di chi pensa che la bellezza possa essere utile per migliorare la qualità di vita di quella stessa comunità. A questo punto, la sua mancanza atterrà non solo alla sfera artistica (della canzone d’autore, della scultura o dell’architettura), ma determinerà un vuoto incolmabile nella società. Vuoto che diverrà esponenziale a ogni ascolto, finché la nostra percezione sarà tanto sensibile da saper accogliere l’intero potenziale della bravura di quell’autore.
Questo è accaduto nel caso di Fabrizio De André. C’è chi vorrebbe “screditarne” il valore, per via del fatto che non scrivesse completamente da solo le proprie canzoni, ma si avvalesse invece di importanti collaboratori; oppure chi esalta delle sue canzoni solo la parte testuale e ne sottolinea la supposta pochezza musicale. Discorsi spesso trascurabili, fuori fuoco quando non pretestuosi. I brani, e anche l’intera struttura di molti dischi di De André, avevano una consequenzialità poderosa tra le cose che diceva e la sua poetica, il suo stile. Nelle interviste non sprecava mai le parole: le pesava, come pesava i concetti e la coerenza di fondo; “accarezzava” ogni singolo termine, proprio come accadeva in canzone.
Scrivo queste cose ripensando anche alla prima volta che conobbi di persona Francesco Guccini: la stessa dolce sensazione di consequenzialità e coerenza tra l’uomo e la sua arte. Guccini, che fino ad allora conoscevo solo per le sue canzoni, era perfettamente come me l’aspettavo e la mancanza di sorpresa descriveva un’autenticità antica e preziosa.
In quanti oggi, per via di queste caratteristiche – così come succede per Gaber, o per Pasolini –, si chiedono cos’avrebbe detto e cosa avrebbe scritto Fabrizio De André di fronte a ciò che succede nel nostro contemporaneo? Ecco perché, da diciassette anni, il vuoto che ha lasciato ci rende inevitabilmente più soli.