Da quando soffro di fervore divulgativo, mi accorgo di affrontare la scienza sotto due diverse angolazioni. Da ricercatore militante, spendo le residue energie su lavori settoriali con cui spero di introdurre ancora qualche approccio innovativo a problemi aperti d’ingegneria dell’acqua. Non trascuro lo sforzo di farmi capire, ma parlo (di norma in inglese) a una comunità ristretta con la speranza di convincerla sulla bontà dei risultati. E che sono tuttora attivo.
Quando mi propongo di divulgare, mi chiedo soprattutto se quanto racconto, quasi mai farina del mio sacco ma frutto di un sapere collettivo, apra davvero una visione nuova sul funzionamento del mondo, dalla natura ai comportamenti umani. Qui posso sfruttare anche le meravigliose sfumature della lingua italiana. E non posso scordare di chiedermi: «Chi mi segue sarà interessato?».
Questa domanda è l’essenza di ciò che trasforma la scienza in notizia. Per giustificare le storie che racconto, devo convincere i lettori che mi sto dedicando a loro. Per farlo, devo dimostrare loro che le nuove conoscenze si riferiscono ad argomenti ben noti al pubblico. Magari approfondire temi che preoccupino la gente rispetto al mondo che la circonda; e ai nostri comportamenti.
Ci sono casi in cui l’interesse viene fuori in modo automatico. Se parlo di una specifica alluvione, la gente ha ben presente ciò di cui si sta parlando e la ricerca che espongo ha un chiaro riferimento alla vita delle persone. Così come quando si parla dell’argine messo a repentaglio dalla dimora dell’istrice e del tasso, poiché le storie inconsuete stimolano la curiosità. Lo stesso accade se narro un aneddoto curioso, come la storia del giovane idraulico che invecchia sistemando un fiume da monte a valle con buoni risultati per il proprio portafoglio. Aggiustare le cose a monte spesso crea seri problemi a valle, ma molti lo ignorano. E se il giovane ingegnere ha così ben operato nel comune di monte, il sindaco di valle si gioverà per certo della sua esperienza!
All’opposto, se espongo problemi di erosione continentale o di esaurimento di falde fossili riesco a malapena a cogliere uno vago interesse. Se parlo di piccole modificazioni dell’atmosfera terrestre a causa dell’inquinamento, l’interesse è modesto anche se l’effetto farfalla è in agguato, perché chi legge è fuori scala rispetto a ogni possibile rimedio. Se, invece, racconto che nel 2014 Milano ha superato ampiamente i limiti annuali di inquinamento atmosferico da particolato ottengo grande attenzione: nel corso dei 365 giorni del 2014 a Milano (Pascal) ci sono stati 68 superamenti, quando di norma non dovrebbero essere più di 35! Ma ottengo quest’attenzione solo se lo scrivo nei giorni cruciali, per esempio alla fine del 2015, con la gente che annaspa per l’aria fetida. Passato qualche giorno, con la pioggia che finalmente cade e fa bene il suo mestiere, non sarebbe facile riprendere la questione, perfino se qualche ricerca avesse aperto nuove strade alla soluzione del problema che tra un anno si riproporrà tal quale.
Ci sono poi studi che non dicono nulla di nuovo, ma hanno un certo impatto scientifico, perché confermano risultati del passato che erano considerati poco credibili o, almeno, rudimentali e ancora approssimativi. Mi è capitato di recente, perché ho dato uno sguardo alle massime piene dell’Arno a Firenze nel nuovo millennio. Quasi 15 anni di dati sono una statistica ancora poco significativa, ma non proprio trascurabile. E mi accorgo che la nuova statistica rispetta abbastanza da vicino le previsioni che avevamo fatto negli anni ’90 usando scenari climatici (transitori) ancora molto rozzi, quelli di prima e seconda generazione. Anzi, queste previsioni, che qualcuno battezzò allora gufate del malaugurio, erano addirittura ottimistiche. Nel cinquantesimo anniversario dell’alluvione del 1966, un riflessione non sarebbe inutile.