“Eccoci qua, siamo venuti per poco perché per poco si va, e il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è
e ricorda il colore di certe lenzuola di certi hotel”
(Francesco De Gregori, La valigia dell’attore)
“Che cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”
(Philippe Noiret, Amici Miei, Mario Monicelli)
“Carneade! Chi era costui?”. Chi è questo figuro che se ne sta nell’occhio di luce, su un piano rialzato e ci guarda, non vedendoci, noi al buio? Chi è questo egocentrico che se ne sta appollaiato su una sedia, su uno sgabello a raccontarci storie altrui vecchie di secoli o proprie? L’attore, questo sconosciuto. Lo chiamano “animale da palcoscenico”.
Ha adrenalina e desiderio, paura e ribalta, sfida e forza espressiva, sente, annusa il pericolo e lo vuole domare. Ha la responsabilità del nostro tempo, lo deve far fruttare nel rito collettivo dell’oscurità. Alcuni momenti ce li ricordiamo per anni. Creano quel qualcosa che non esiste. Polvere di stelle, metafora azzeccata. Polvere di pelle. Quel quid di poesia, di futile e profondo, di leggero e inestirpabile, di soffice e cavernoso che si appiccica alla carne e ti lascia lì a bocca aperta, a mani giunte, ad applaudire che è l’unico gesto possibile, come bambini, come scimmie, per esibire la nostra gratitudine e fortuna nell’esserci, nell’esserci stati, insieme a condividere.
Ne ho incontrati, ne ho visti. C’è qualcosa di magico che li pungola in quel mixaggio di tecnica e cuore, professione e spontaneità costruita, mestiere e anima che si forma un bolo che ti arriva dritto, diritto e ti centra, cervello e bocca dello stomaco, e rimani sbalordito della potenza, del risuonare di parole sentite mille volte, ma che adesso assumono, e per sempre, un senso, un significato, tutto nuovo, diverso. Scopri il caleidoscopio delle sfumature su una sottolineatura vocale, su un passaggio dialettico ti ripensi, su una pausa, su uno sguardo, tu e loro, tu e quello là sopra come in un duello da spaghetti western, cedi, ti appoggi, ti accoccoli e metti il tuo tempo nelle loro mani.
Lasci andare le briglie e sotterri l’ascia, metti il resto sotto lo zerbino. Le scapole si accomodano, la spina dorsale respira, i nervi hanno un ultimo sussulto. “Tutti i muscoli pronti per l’accoppiamento”, cantava Franco Battiato prima dell’infortunio al femore. Si innesca una sorta di innamoramento che ha bisogno che questa passione venga sfogata, che l’amplesso venga celebrato. E si forma un passaggio, di fiducia e sottomissione, tra sopra e sotto il palco, in un rapporto tra padrone giusto e sudditi volutamente, consapevolmente obbedienti. E’ un legame debole certo, è un’unione fragile che si scioglierà con le luci, con la fine, ma il gusto rimane, nel sottobosco, come caffeina sul palato, come burro di cacao scivoloso dopo un bacio. Tra schiaffo e carezza, tra condottiero e ciurma, tra generale e fanti.
Sembrano giganti, infiniti e invincibili, sulla scena sfrontati, arroganti, aggressivi, brutali, decisivi, maniacali, persuasivi. Si mettono la maschera del tuo supereroe preferito e tu non vorresti essere in nessun altro posto che lì, in quel luogo inventato, assurdo, letterario. Tutto è finto ma niente è falso. Fammi credere anche alle bugie e fammi pensare che siano la verità. Mi interessa il come. La verità sta negli occhi di chi ascolta. Ti innamori ogni volta, non puoi farne a meno. Esiste altro rispetto allo squallido e grigio presente degli altri comuni mortali. Il bravo attore ti mette alle strette, non puoi far altro che alzare le mani e arrenderti, è un alito fresco e se lo hai visto, se te lo sei goduto, se lo hai sentito, come una droga, come una coazione a ripetere, non puoi fare a meno di voler riprovare quella sensazione, quel brivido, risentire quell’ago sottopelle, quello spillo che fa male, che fa bene, che non sai da che parte arriva, che colpisce e non hai nemmeno bisogno di difenderti. Solo accogliere, spalancarti.
E ho visto Fulvio Cauteruccio seppellire di calabrese in Roccu u stortu e, in camiciola, sfornare onomatopeiche cariche di vita, ho sentito le vibrazioni di Michele Di Mauro, il suo slancio, le sue parole come ghigliottina in Koltes e Fassbinder, ho amato Fabrizio Gifuni, la sua padronanza e intelligenza, in Gadda e Pasolini, ho ammirato la lucida follia di Daniele Timpano, la sua freschezza e armonia, il suo lasciarti davanti al burrone senza darti la mappa dei suoi pensieri nel labirinto delle sue frasi, ho adorato Angelo Romagnoli per le punture sempre a metà strada tra un invito e una spinta, e Oscar De Summa, lucignolo feroce, schietto e autoironico, e Annibale Pavone, delicato e convincente, brillante giocoliere della materia viva, e Simone Perinelli che diviene fantoccio, s’inerpica, si frantuma, ti porta in terreni scivolosi, vulcanici, fangosi, prima di riprenderti, e Ciro Masella che conduce le danze, fa gli onori di casa e infine mischia le carte del gioco più bello del mondo, e ancora il vigore commovente di Francesco Colella di Zigulì o la prestanza fisica e vocale di Marco Foschi, la sfacciataggine di Luca Micheletti, l’insolenza guappa canzonatoria di Stefano Cenci, i lividi che si muovono dentro, ieri nell’Amleto, oggi nel Riccardo III di Michele Sinisi.
Sono fortune da incontrare, certi attori: “L’attore è un bugiardo sincero”, li consacrava Albert Camus. Una specie da salvare dall’estinzione.