Che il tema del canone e del servizio radiotelevisivo pubblico sia un terreno sdrucciolevole, nel quale tutti si sentono in diritto di entrare ma con il rischio di scivolare nel pressapochismo, è un dato ormai piuttosto consolidato. Ma non avrei mai pensato che si potessero riunire tante banalità in un luogo di solito consacrato a riflessioni di un certo livello come la pagina centrale di la Repubblica.

Domenica scorsa anche questa mia fiducia è svanita di fronte a un articolo di Alessandro De Nicola. Ispirandosi evidentemente al pensiero liberale (il suo sito è nientemeno che adamsmith.it) o meglio credendo di farlo, il nostro comincia a contestare la validità del provvedimento che trasferisce il canone nelle bollette, con capziose previsioni di inghippi, contenziosi, confusioni, ingiustizie. Cose che sono certamente possibili ma che fanno inevitabilmente parte di ogni modifica tributaria. Se si volessero evitare i dannosi ma parziali effetti collaterali, esito di ogni ridefinizione delle regole, non si farebbe mai nessuna riforma. Ma il vero tema che sta a cuore a De Nicola non è questo, quanto la mancata privatizzazione della Rai.

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Ispirato dal pensiero di Adam Smith, è certo che non facciano parte di un servizio pubblico programmi come L’eredità o La domenica sportiva. Io invece mi chiedo perché no, visto che L’eredità è un prodotto ben fatto, cortese, piacevole e che riesce persino a diffondere qualche nozione di lingua italiana. Giochi simili si trovano diffusamente nei palinsesti dei servizi pubblici di tutti i paesi europei, anche di quelli di grande tradizione liberale. Se fosse per De Nicola alla Rai resterebbe solo Rai Storia, Rai Scuola, Rai 5, Rai news e Isoradio, ma per bontà sua perché ad Adam Smith non piacerebbe neanche questo.

Insomma la vecchia storia della destra italiana (e, lasciatemelo dire, del programma della P2) che vorrebbe eliminare il servizio pubblico. Specialmente quando si trova all’opposizione. Quando invece è al governo non ne parla più. Anzi, lo usa per sistemarci i giornalisti amici a combinare guai in cambio di lautissimi stipendi (ricordate Socci, Battista, Ferrara?) o per parcheggiare le amichette dei suoi esponenti (ricordate vallettopoli?). Una vecchia, brutta, ambigua storia che sappiamo bene.

Quello che invece non sappiamo come spiegarci è come mai simili elucubrazioni trovino posto là dove un tempo le analisi di temi così delicati erano affidate a Curzio Maltese o Stefano Rodotà.

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