È piuttosto di moda, oggi, evocare il “teatrino della politica”, a volte cabaret a volte pantomima, ma sempre più spesso teatro tragico, più che commedia, per spiegare come, nella costruzione degli scenari politici e delle alleanze possibili, apparenza e realtà si mescolino, per accontentare tutti senza cambiare mai nulla; ovvero per stigmatizzare i metodi e le strategie, più o meno invisibili, di depistaggio e di occultamento dell’informazione reale degli interessi materiali e delle ideologie. Il significato dell’endiadi, tuttavia, è assai più profondo: essa allude a quello che potremmo chiamare lo “Stato d’illusione”.
Nella considerazione dei fenomeni politici come fenomeni d’illusione, dello Stato come una sorta di teatro, l’uomo politico, il ceto politico non sono burattinai nascosti nel buio a tirare i fili che muovono, o spesso tengono fermi, i burattini, ma attori, recitanti sopra una scena a consumo di coloro che, nel teatro, stanno dalla parte del pubblico. La scena è bene illuminata, è anzi la zona meglio illuminata della sala, ma ciò che si vede sulla scena è illusorio, si propone agli spettatori ed è da loro percepito secondo un codice semiotico diverso da quello che governa i reali rapporti fra i recitanti e dei recitanti con il pubblico stesso. L’idea, s’intende, non è nuova, anche se abbastanza nuovo è l’apparato semiotico-antropologico in cui viene presentata. Si tratta in fondo della vecchia idea che il potere politico non sarebbe tollerato se apparisse per quello che è. Il potere si regge sul consenso mescolato alla forza, il consenso si acquista con l’illusione ed il segreto è il cassetto per nascondere le decisioni e gli strumenti del potere, che nemmeno la più violenta manipolazione simbolica può rendere tollerabili: al suo principe Niccolò Machiavelli insegna come, stando sulla volpe dovesse rappresentarsi, perché i sudditi lo accettassero e gli fossero fedeli, nelle simulate virtù e nei dissimulati vizi.
Ormai assistiamo, tuttavia, quasi quotidianamente, a rivelazioni sconvolgenti relative alle attività politiche, diplomatiche e militari portate avanti dai potenti della Terra: casi di torture, di aggressioni, di violenze e di mancato rispetto delle convenzioni internazionali. Sempre più spesso viene reso di pubblico dominio, qualche importanti archivio segreto al cui interno sono raccolte moli imponenti di documenti riservati, che nessuno dovrebbe leggere e conoscere. Non vi è giorno che una qualche intercettazione telefonica non conduca ad emersione i segreti del potere. E così, ogni volta, si riaccende la querelle tra i “Signori delle tenebre” e i “Signori della luce”. I primi non perdono occasione per ribadire la necessaria inerenza del segreto alla politica, di cui l’uomo, animale politico, deve accettare le leggi essenziali. I secondi, invece, sono portatori d’una cultura laica e democratica, permeata cioè da quel laicismo che riconosce in ogni essere umano libertà e ragione, dunque il diritto a decisioni autonome basate su un’adeguata, pubblica conoscenza, anche se devono ammettere che nella casa della luce qualche zona di penombra e qualche provvisoria oscurità siano pure da tollerare.
Varie le species costituenti il genus dei “Signori delle tenebre”, da quella di coloro ai quali appartiene il rifiuto fascista dell’intelligenza, il rifiuto cioè della sottile, anche pericolosa, anche corrosiva avventura della ragione, a quella di coloro a cui appartiene, invece, la riserva dei pericoli e degli acidi della ragione ai pochi, che hanno preso su di sé il peso ed il sacrificio del destino altrui. Questi ultimi, eredi spirituali del cardinale Bellarmino, che rimproverava a Galileo, non già di avere raggiunto e dimostrato la verità, ma di averla divulgata con mezzi di grande diffusione, sono portatori di un antico spirito cattolico, decantato attraverso i secoli sino a grandi raffinatezze intellettuali e diventato per altro verso quasi istinto politico: il peccato, l’eresia cominciano, per loro, quando l’intelligenza e la ragione si diffondono, diventa comune il desiderio di gustare i frutti dell’albero proibito, e le pecorelle perdono il mite abito di sottomissione verso il pastore che le guida alla salvezza in Dio. Secondo il loro modo di vedere, insomma, dal sacrificio e dalla sapienza del pastore, che tiene su di sé il fardello della salvezza altrui, derivano un duro realismo, un apparente cinismo, una spietatezza, una capacità di usare la menzogna e manipolare l’ignoranza, che possono apparire immorali soltanto a chi non comprende come il pastore guardi sempre alla meta, lontana ma decisiva, della salvezza di coloro che gli sono confidati.
Rispetto ad una simile visione della società e della politica, per la quale la lotta illuministica contro il segreto politico non sarebbe che “rozzo utopismo”, il laicismo recupera invece, riscattandosi dalle versioni correnti e banali, la forza di una grande filosofia dalla parte dell’uomo: non vi siano pastori, perché non devono esservi pecore. Si svuotino gli argomenti teo-teleologici per la menzogna e l’ignoranza quali strumenti adoperabili dai pastori a fini di salvezza, perché la sorte dell’uomo si gioca qui ed ora, qui ed ora l’uomo si salva nella dignità della conoscenza e di una libertà esercitata nella conoscenza, oppure si perde, vittima della menzogna e dell’ignoranza.