Il primo provvedimento risale al 2010, con Berlusconi. Nel 2012 Clini, ministro di Monti, ha consentito alla fabbrica di continuare a produrre nonostante il sequestro. Nel 2013 Letta ha scelto come commissario Bondi senza sciogliere il nodo delle risorse. Lo stesso che ha affossato il piano dell'ex rottamatore. Il quale dopo aver annunciato "un cambio di passo" ha ri-nazionalizzato il siderurgico
Il nono decreto “salva Ilva”, approvato lunedì dalla Camera, è solo l’ultimo di una lunga serie di tentativi fallimentari dello Stato italiano di salvare lo stabilimento siderurgico di Taranto. L’acciaieria dei Riva, attualmente in amministrazione straordinaria, negli ultimi anni è stata al centro delle attenzioni dei governi di ogni colore. E la salvaguardia della “produzione ad ogni costo” è stata una costante. Così come il naufragio di un piano via l’altro. E intanto l’ultimo provvedimento dell’esecutivo Renzi, oltre a stanziare 800 milioni di finanziamenti per le bonifiche e 300 per gli stipendi e le altre “indilazionabili esigenze finanziarie”, ha allungato i tempi per il risanamento degli impianti fino al 2017, nel tentativo di mettere una pezza in extremis al problema di fondo che nessuno è mai riuscito a risolvere: non ci sono i soldi.
Il primo salva Ilva e il salvacondotto sulle emissioni – La storia inizia ancora prima del 26 luglio 2012, giorno in cui il gip Patrizia Todisco sequestra gli impianti dell’area a caldo e l’Italia scopre che a Taranto il nodo salute-lavoro è tutt’altro che risolto. Il primo decreto salva Ilva era arrivato, infatti, nell’estate 2010. In piena emergenza benzo(a)pirene il ministro dell’Ambiente del quarto governo Berlusconi, Stefania Prestigiacomo, aveva autorizzato l’innalzamento dei limiti di emissione per questo inquinante cancerogeno nelle città con un numero di abitanti superiore ai 150mila. Le intercettazioni dell’inchiesta “ambiente svenduto” sveleranno poi che in quegli stessi giorni l’allora capo della segreteria tecnica del ministro, Luigi Pelaggi, aveva chiesto e ottenuto da Fabio Riva una donazione di 5mila euro a favore della Fondazione Liberamente, costituita nel 2010 dagli ex ministri Mariastella Gelmini, Franco Frattini e dalla stessa Prestigiacomo. Non è una tangente e la Prestigiacomo non è mai stata coinvolta in alcun modo nell’inchiesta, ma l’audio della telefonata rende l’idea dei rapporti tra i padroni dell’acciaio e i controllori del ministero dell’Ambiente.
Il sequestro degli impianti smontato dal ministro Clini – Quando nel 2012 il pool di inquirenti guidati da Franco Sebastio ha ottenuto il sequestro senza facoltà d’uso per gli impianti ritenuti causa di emissioni, che secondo i periti generano “malattia e morte”, il nuovo ministro dell’ambiente Corrado Clini (governo Monti) annuncia il ricorso al Tribunale del riesame. Pur essendo a capo di un organo istituzionale ritenuto vittima dell’inquinamento della fabbrica. Pochi mesi dopo, Clini ferma per decreto l’azione dei magistrati varando un provvedimento che consentiva all’Ilva di produrre indisturbata per i successivi 36 mesi in attesa di adeguare gli impianti inquinanti alle disposizione della nuova Autorizzazione integrata ambientale. Gli impianti, quindi, sono rimasti solo formalmente sequestrati e l’Ilva ha ottenuto in sostanza una facoltà d’uso per legge. Per vigilare sul rispetto degli adeguamenti ambientali Monti nomina un “garante” per l’attuazione dell’Aia, che dopo pochi mesi viene silurato.
Con Letta la gestione passa a Bondi, scelto dai Riva. Resta il nodo risorse – Nel 2013 il nuovo esecutivo guidato da Enrico Letta nomina come commissario straordinario Enrico Bondi, l’uomo che pochi mesi prima era stato scelto proprio dai Riva come amministratore delegato dell’Ilva. “Dalle decisioni che vengono prese sull’Ilva dipende il futuro della siderurgia italiana e più in generale la credibilità del nostro Paese“, profetizza l’allora ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato. Bondi ottiene dal governo il potere di aumentare il capitale dell’Ilva chiedendo al gruppo Riva di partecipare. In caso di rifiuto, il commissario avrebbe potuto ricorrere a investitori terzi o chiedere all’autorità giudiziaria lo svincolo del miliardo di euro sequestrato ai Riva dalla procura milanese in un’altra inchiesta giudiziaria. Soldi che saranno poi inseguiti disperatamente fino al “no” dei giudici svizzeri di Bellinzona al rientro in Italia. Ad agosto 2013 un nuovo colpo alla salute dei tarantini: un emendamento al decreto legge sulla Terra dei Fuochi concede all’Ilva l’autorizzazione a smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento. Un regalo che consente all’azienda ormai gestita dallo Stato di risparmiare milioni di euro.
Renzi, l’auspicio del “cambio di passo” e la nuova nazionalizzazione – Con l’arrivo di Matteo Renzi la musica non cambia, nonostante nel maggio 2014 il premier fiorentino avesse sentenziato che era necessario in tempi brevi “un cambio di passo” perché “così non si va avanti”. Il sogno era quello di cedere la patata bollente nelle mani di una cordata di privati, individuati negli indiani di Arcelor Mittal affiancati da Marcegaglia spa, e archiviare rapidamente il dossier Taranto, una delle “tre T” (insieme a Termini Imerese e alla TyssenKrupp di Terni) di cui intendeva “occuparsi subito”. Speranza durata poco: a dicembre di quello stesso anno l’inquilino di Palazzo Chigi annuncia che l’Ilva sarebbe entrata in amministrazione straordinaria, previa modifica della legge Marzano sulle grandi imprese in stato di insolvenza. Di fatto una nuova nazionalizzazione – fino al 1995 l’Ilva era pubblica – realizzata espropriando la famiglia Riva, ancora azionista di maggioranza. Ma “l’investimento pubblico avrà successo se destinato a un tempo limitato, compreso tra un minimo di 18 mesi e un massimo di 36“, tiene a specificare Renzi.
Spunta l’idea della società semi-pubblica. Ma non ci sono i soldi – A quel punto, archiviato Enrico Bondi, a capo della struttura arriva Pietro Gnudi, forte della sostanziale immunità da conseguenze amministrative o penali concessa dal decreto al commissario straordinario e della possibilità di rispettare le prescrizioni del piano ambientale solo “all’80%”. Nel frattempo il governo, con il contributo del neo consulente strategico Andrea Guerra, mette in campo un’altra idea: creare una società per azioni a partecipazione pubblica (attraverso la solita Cassa depositi e prestiti) e aperta anche a fondi di investimento privati, fondi pensione, banche e altri investitori istituzionali. Questa newco avrebbe dovuto gestire il siderurgico per sette anni con l’obiettivo di ristrutturarlo e rilanciare le attività. Peccato che non abbia mai visto la luce. Anche perché sul fronte finanziario le fondamenta del decreto erano a dir poco fragili: la fetta principale dei 2 miliardi di investimenti ritenuti necessari era costituita dagli 1,2 miliardi sequestrati alla famiglia Riva. Soldi che il governo dava per disponibili, incurante del fatto che si trovavano – e si trovano tuttora – in Svizzera. Nel frattempo l’emorragia di clienti e fornitori si è aggravata.
Le toppe del governo e la spada di Damocle della Ue – Di lì la necessità di intervenire in soccorso di uno stabilimento sempre più in rosso mettendo toppe qui e là: prima la possibilità per i commissari di emettere obbligazioni per un valore di 2 miliardi, poi 400 milioni di finanziamenti con garanzia dello Stato, poi il via libera al funzionamento degli altiforni anche se sequestrati dai pm perché non rispettano le norme di sicurezza (questo dopo che a giugno è stato ucciso da un getto di lava l’operaio 35enne Alessandro Morricella). Infine, nella legge di Stabilità, è spuntata l’ennesima garanzia statale per altri 800 milioni, che l’ultimo decreto trasforma in finanziamenti diretti. Inevitabilmente, la Commissione Ue ha aperto un dossier sul caso e sta valutando se aprire un’indagine per aiuti di Stato. Nel frattempo anche le bonifiche sono andate avanti a pezzi. Lasciando fuori interventi cruciali per la salute della popolazione come la copertura dei parchi minerali. E anche su questo Bruxelles ha da ridire: l’esecutivo europeo ha ricordato a Roma che “la mancata ottemperanza” agli interventi di messa in sicurezza e bonifica “comporta l’assoggettamento dello Stato a sanzioni pecuniarie”.
Il prevedibile stop della Svizzera che affossa il piano – A sancire il fallimento su tutta la linea del piano renziano è stata, lo scorso novembre, la decisione non certo imprevedibile dei giudici di Bellinzona di negare il trasferimento in Italia dei soldi dei Riva visto che il processo per truffa a carico di Adriano Riva e di due commercialisti è ancora in corso. Così l’intera impalcatura è crollata e il governo ha dovuto correre ai ripari scrivendo in tutta fretta il nono e per ora ultimo decreto salva Ilva. Con l’obiettivo di accelerare la sospirata cessione ai privati. Dal 10 gennaio scorso il siderurgico è ufficialmente in vendita: fino al 10 febbraio le cordate eventualmente interessate a rilevarla o a gestire la fabbrica pagando un affitto potranno presentare una proposta ai commissari Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. Molto, però, continua a non tornare: lo stabilimento è formalmente di proprietà dei Riva, che difficilmente assisteranno immobili a un esproprio senza indennizzo. Non solo. Gli impianti sono ancora formalmente sotto sequestro e quindi non possono essere venduti. La soluzione? Forse un nuovo decreto. Cucito su misura alle esigenze dei futuri gestori dell’acciaio tarantino. Nel frattempo, mentre i lavoratori dello stabilimento di Cornigliano manifestano chiedendo garanzie almeno sugli ammortizzatori sociali, al ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi non resta che convocare un altro “tavolo nazionale dedicato all’Ilva”.
ha collaborato Chiara Brusini