I lavoratori partecipino alla gestione delle imprese. La richiesta arriva dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, che hanno elaborato una proposta comune per la riforma della contrattazione. Il documento, che il 14 gennaio sarà approvato dai direttivi delle confederazioni, sarà poi sottoposto alle associazioni datoriali, Confindustria in primis, per cercare un accordo ed evitare che il governo intervenga con una legge sul tema, spiazzando le parti sociali, come annunciato dal premier Matteo Renzi. Il pensiero corre subito alla Germania, dove il meccanismo della partecipazione è una realtà ormai consolidata. Ma attenzione. “Non si può importare in toto il modello tedesco in Italia – avverte Matteo Corti, docente di diritto del lavoro all’università Cattolica di Milano ed esperto di Germania – La nostra tradizione è troppo diversa”. Diversa la governance e diverse le dimensioni delle imprese, diverso il ruolo del sindacato.
Ma come funziona in Germania? Il sistema tedesco della partecipazione, o meglio codeterminazione, si basa su due livelli. Innanzitutto, c’è la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle società, che permette la partecipazione alle decisioni economiche e strategiche delle imprese. Sopra i 500 dipendenti, i lavoratori costituiscono un terzo del consiglio, sopra i 2mila la metà. Poi c’è il comitato aziendale, eletto dai dipendenti in tutte le unità produttive: su questioni come organizzazione del lavoro, orario, ferie, codice disciplinare, l’impresa non può assumere decisioni senza l’accordo con questo organismo. In entrambi i casi si tratta di istituzioni di natura non sindacale, a differenza di quanto avviene in Italia con rsu e rsa. Anche se nei consigli di sorveglianza tedeschi, almeno nelle imprese più grandi, i rappresentanti sono spesso, ma non necessariamente, legati ai sindacati.
Ma in Italia la situazione è ben diversa. Innanzitutto, cambiano le dimensioni: da noi dominano le piccole-medie imprese, a Berlino sono più diffuse le grandi industrie. “In Germania – spiega il professor Corti – la partecipazione dei lavoratori nei consigli di sorveglianza comincia nelle società con più di 500 dipendenti, ma la forma più ambiziosa riguarda le realtà con più di 2mila dipendenti. In Italia le società con un tale numero di lavoratori rappresentano un numero piuttosto contenuto”. Poi, aggiunge il docente, c’è la questione della governance: nel nostro Paese, è quasi inesistente il sistema duale, con la copresenza dei consigli di sorveglianza e di gestione, mentre è più diffuso il ricorso al consiglio d’amministrazione. Infine, si parla di un diverso ruolo delle sigle sindacali. “Penso che i nostri sindacati non sarebbero mai d’accordo su un organismo di natura non sindacale come il comitato aziendale”, prosegue il giuslavorista. Insomma, se facessimo come in Germania, la presenza delle confederazioni nelle imprese sarebbe sicuramente meno forte.
D’altra parte, sono gli stessi sindacati a sottolineare le differenze con la Germania. “Dobbiamo costruire una via italiana alla partecipazione – spiega Gigi Petteni, segretario confederale Cisl – Va bene guardare agli altri modelli, ma non bisogna importarli. Siamo diversi rispetto alla Germania, in primo luogo sul piano della dimensione delle imprese”. Nel documento preparato dai sindacati, dal titolo “Un moderno sistema di relazioni industriali“, si chiede con forza l’applicazione dell’articolo 46 della Costituzione, che prevede “il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Un passaggio da sempre osteggiato dalle imprese italiane, che non vedono di buon occhio la partecipazione dei dipendenti alla gestione delle società. Il documento sindacale propone innanzitutto la presenza di lavoratori all’interno dei consigli di sorveglianza. Che però, come detto, sono poco diffusi nelle aziende italiane. E allora “in assenza di strutture duali vanno previste altre modalità di partecipazione alla governance”. Come fare nel concreto? “Questo è un terreno inedito, dobbiamo inventarci qualcosa che non c’è – ammette Franco Martini, segretario confederale Cgil – Abbiamo lanciato una sfida a noi stessi e anche alle imprese. Che finora hanno sempre voluto tenere i lavoratori fuori dalla stanza dei bottoni”.
Sul piano della contrattazione in senso stretto, invece, i sindacati confermano un meccanismo su due livelli, uno nazionale e uno che può essere aziendale, territoriale o circoscritto al sito, al distretto, alla filiera. Le tre confederazioni intendono potenziare il secondo livello, ma lasciano al contratto nazionale il compito di regolare i minimi salariali contrattuali. Con questa mossa, i sindacati vogliono disinnescare l’intenzione del governo di introdurre un salario minimo per legge, che a loro dire determinerebbe un abbassamento generale degli stipendi.
Infine, c’è il tema della rappresentanza. Il documento chiede una legge che recepisca l’accordo del 2014 tra sindacati e Confindustria, che regola la rappresentanza delle sigle sindacali ai tavoli di contrattazione. Questo passaggio darebbe finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, con l’applicazione erga omnes dei contratti. In parlamento, c’è già una proposta di legge che va in questo senso, a firma del deputato Pd Cesare Damiano. Ma i sindacati chiedono di andare oltre. “Bisogna procedere alla verifica della rappresentanza non solo tra le sigle sindacali, ma anche tra le associazioni delle imprese – sottolinea Tiziana Bocchi, segretaria confederale Uil – Questo passo è necessario per ridurre l’elevato numero di contratti, tra i quali esistono anche accordi pirata con condizioni capestro per i lavoratori. Il proliferare eccessivo di contratti nazionali è legato soprattutto alla frammentazione del sistema associativo delle aziende”.