Due sono i grandi fraintendimenti, equivoci e misunderstanding attorno al circo-teatro. Il primo è che sia appannaggio soltanto dei più piccoli, dei bambini, in qualche modo sommandolo come copia del teatro ragazzi, dall’altro, cosa riscontrabile il più delle volte, manca un fil rouge, chiamala drammaturgia di fondo, per poter essere definito “teatro” e stare dentro un “teatro”. Molto spesso sembra che non ci sia nessun sviluppo attorno al tema centrale proposto, un’idea o il titolo stesso, ma che si cerchi o di arrivare al numero consolidato, verso il finale per lasciare il senso degli applausi nelle mani e negli occhi, oppure che sia una sequenza di numeri circensi uno dietro l’altro ma senza alcuna cucitura delle varie parti. Il difetto più comune è che, è palese, si sente e si avverte concretamente, manchi una supervisione esterna, una regia che riesca a far collimare, a riunire sotto lo stesso cappello gesti e gag e scene che altrimenti risultano sospese, lontane, distanti l’una dall’altra.
Detto questo, il “Circumnavigando festival” di Genova, che si svolge da quindici anni a cavallo tra il vecchio e l’anno nuovo, è un contenitore di felicità e colori che quest’anno si è snodato per oltre due settimane, con 50 spettacoli e dislocato e spalmato su sei punti della città di De Andrè e Bruno Lauzi. Il Tendone al Porto Antico, dove svettava l’ascensore guardando le lance a cilindro che s’infilano nell’acqua, il Palazzo Ducale (dove era presente anche la mostra degli Impressionisti), nel cortile colonnato o nelle magnifiche sale consiliari affrescate, il Teatro Altrove, palazzo da poco ristrutturato, tutto nero che molto ci ha ricordato l’off off di Broadway dove emergono le cose più interessanti, Piazza San Lorenzo di fronte alla magia del marmo e dei leoni del duomo, Palazzo Tursi e, uscendo un po’ dal centro storico, nella tristemente ricordabile Bolzaneto per i fatti del G8 di qualche anno fa, il Teatro Govi.
Genova che è vie strette dove tutto s’innalza e il cielo diventa uno spiccio che bisogna fare capolino tra i panni stesi e guardare per terra a scansare liquami e guardarsi attorno dove le scritte avanzano, con calore di poesia quotidiana e passione politica, saliscendi, sposta, scansa, vedi, scova, annusa, gira. Genova è così, un dedalo sempre diverso, dove cammini e ti sembra essere nello stesso posto di prima, dove respiri e il mare sembra lontanissimo fino a ritrovartelo addosso, dove l’olio della focaccia e l’unto delle alici fritte si sposano al pesto e al vermentino in un unico boccone.
In media sono 20.000 le presenze annuali alla kermesse internazionale (quest’anno ospiti da Francia, Spagna, Belgio, Brasile, Argentina) ideata da Boris Vecchio con la sua compagnia Sarabanda (sarabanda-associazione.it). Coinvolgente, divertente, speziata, piccante, allegra, frizzante. Abbiamo seguito intensamente due giorni di spettacoli e qui parleremo di tre performance che, per motivi diversi, ci hanno colpito. Equilibrio, fragilità e potenza, forza e determinazione, esercizio fisico e precisione, clown e birilli, tutto sul filo della fanciullezza, del sorriso, di quella riflessione stralunata anticamera della poesia.
Quello che ci ha più sorpreso per delicatezza sofisticata e semplicità morbida è stato senza dubbio “Juri un clown nello spazio” di Giorgio Bertolotti e Petr Forman, figlio del due volte premio Oscar Milos regista di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” o “Man on the moon”. Già dall’impianto della location: un igloo immerso e incastonato tra le colonne del cortile di Palazzo Ducale, una cupola squadrata che ben presto si trasforma in un’astronave. Bianco lindo sul bianco passato al setaccio dei secoli. Una sedia da dentista, di quelle che si alzano e si abbassano, è la centrale operativa del nostro strambo cosmonauta, pigro e fannullone, che beve birra e fa i suoi bisogni ascoltando Drupi a squarciagola. Ci sentiamo la cagnetta Laika e lo scimpanzé spediti su nell’atmosfera per vari esperimenti e indagini. Il motore romba, il mimo muto ci conduce in questo spazio delirante e devastante. Ci sentiamo la Cristoforetti e dentro “2001 Odissea nello spazio”, in “Star Wars” o nelle scene dei “Visitors”, “Houston abbiamo un problema” o “Gravity” con George Clooney. Tutto è leggero, a tocchi, a soffi, a pennellate, a carezze. Sulla volta celeste della nostra navicella vengono proiettati quadranti dai mille pulsanti colorati ed accesi come meteoriti ed asteroidi, galassie e maiali alla Pink Floyd, stelle cadenti e comete, radar e laser ad intermittenza in questo viaggio intergalattico. Tutti con il naso all’insù con la paura dell’universo in espansione, dell’infinito che ci avvolge. Il nostro Caronte mima l’assenza di gravità in movimenti stoppati, da molleggiato rallentato. La sensazione di perdita e nostalgia ci attanaglia quando sullo schermo passano i suoi sogni: sogni di vita quotidiana, da Buster Keaton al calcio, Bob Marley fino a quella “Piccola e fragile” di drupiana memoria. Come dire che a noi umani, così miseri ed insignificanti nell’infinito attorno a noi, ci basta anche poco per sognare altri mondi; non abbiamo le ali ma possiamo volare con l’immaginazione.
All’interno della premessa aperta nell’incipit sulla mancanza di drammaturgia inseriamo “Igloo” degli argentini ES dove in uno spazio con strisce a terra, come in “Dogville” per capirci, una coppia si ritrova in quest’agorà tra vari sketch. E’ qui che pare che ci sia una grande costruzione faticosa per poi arrivare a raggiungere il know how conosciuto finale. Qui molti elementi non collimano e sembrano arrivare all’improvviso sulla scena senza una precisa motivazione, molte trovate e gag sommate senza una costruzione: le pagine strappate del libro, il tango, i famigerati birilli (che sempre tornano!), il sirtaki, in una poltiglia di segni, fumo prima di arrivare all’agognato arrosto, ovvero la funambola sul cerchio, bravissima, eccelsa.
Parte benissimo “Oxymoron” degli spagnoli Kerol con un superlativo piroettante su pattini scansa e fa lo slalom tra pomi che scendono impiccate da “Tempo delle Mele”, nel suo incedere di cadute, novello Adamo senza una sua Eva, scappa, scivola, derapa, curva sopra note di chitarra pizzicata in un’atmosfera d’incenso da “Lanterne rosse” ed una katana da samurai, come in una Corrida, come Zorro o Braveheart, che le decapita (uccide il peccato originale?) ricordando qui, tragicamente e forse fuori luogo, gli assassinii infami da parte dell’Isis. Un exploit che ha bisogno di rifinitura e di dettagli per dare un senso a questa materia incandescente che adesso è un bolo ma che può divenire onirica.
Genova