Dall’altra parte dell’oceano, seppur con un po’ d’iniziale scetticismo, tanta critica americana ha capitolato di fronte alla coriacità del fenomeno Rocky abbandonandosi all’entusiasmo dopo la visione del suo primo spin-off. I Golden Globe hanno dato ragione a Creed, premiando finalmente Sylvester Stallone, ma come miglior attore non protagonista, un piccolo paradosso per il padre fondatore della saga. Il nuovo eroe è questo ragazzotto che a Los Angeles se la passa molto bene ma ha i pugni pieni di livore e fame di vittoria.
Cerca il suo posto nel mondo e nello sport del padre Apollo Creed, che non ha mai conosciuto, ma al tempo stesso vuole tirarsi fuori dalla sua ombra. È Michael B. Jordan a indossarne i pantaloncini a stelle e strisce. Inciampato nel si spera irripetibile erroraccio Marvel Fantastic Four, Jordan ha alle spalle un’interpretazione drammatica importantissima in Ultima fermata Fruitvale Station, dove impersonava il ragazzo di Oackland freddato senza motivo da un poliziotto bianco nel 2009 e ripreso dai telefonini dei presenti. Tutto ancora su YouTube.
Ma torniamo a noi, anzi a Philadelphia. Il giovane Adonis, boxeur autodidatta, segue così il suo istinto in pellegrinaggio da L.A. alla Pennsylavania per farsi allenare da un Rocky ormai vecchiotto e solitario. Anche Paulie riposa in pace e a proposito, la sceneggiatura di Ryan Coogler e dell’esordiente Aaron Convington ha trasferito in Canada il figlio dello Stallone Italiano (poco male, con quella fragilità drammaturgica) nonché depennato Marie, l’ex-bulla di quartiere divenuta brava madre di un adolescente e possibile flirt del precedente Rocky Balboa datato 2006.
Il nuovo capitolo si popola anche di veri campioni di pugilato contrapposti sul ring a Donny, questo conferisce una spinta non indifferente alla creatura di Coogler, che aveva diretto Jordan anche in Fruitvale Station. La parte migliore resta ovviamente quella del falso non protagonista Stallone. Non importa se il suo meritato Golden Globe onori dopo quarant’anni più una carriera, un’icona o soltanto quest’ultima interpretazione. La novità sta nel combattimento contro un nemico invisibile e senza ring. Non guantoni né risse da strada, ma chemio per il campione di Philadelphia, con tutto ciò che ne consegue. Parlarne oltre, però, anticiperebbe ingiustamente. E per quanto il doppiaggio di Massimo Corvo sia perfetto, l’unico peccato originale delle sale italiane sarà di oscurare il vocione vincitore di Sly.
Adesso si discuterà anche in Italia sulla qualità attoriale di Stallone finalmente riconosciuta, ma c’è un altro suo talento che molto pubblico e tanta critica non hanno mai voluto osservare: quello registico. Ha diretto Rocky II, III, IV e Balboa, oltre all’insospettabile Staying Alive. In quest’ultimo preparò anche fisicamente John Travolta, ma il segno comune e indelebile che marchia questi film è l’epica dell’azione fisica, l’estetizzazione estrema del gesto sportivo, che fosse un incontro, un training o una coreografia. Non è un caso che spesso coincidessero tutti e tre. Il giovane Ryan Coogler raccoglie questa pesante eredità. Scrivere una storia diversa ma coerente col passato, amalgamare le giuste punte di dramma a quelle di adrenalina gli è riuscito bene, ma farne uno show non del tutto.
Chissà per quale motivo, sia nelle scene degli allenamenti in palestra quanto in quelle dei match sui ring, le inquadrature targate Coogler stringono quasi esclusivamente sulle mezze figure, i mezzibusti. A parte i noti pantaloncini dell’incontro finale, certe volte si fatica a capire di che colore siano le braghe di Creed, senza parlare degli scarpini, praticamente censurati. Fateci caso se guarderete il film.
Adesso direte: “E chi se ne frega delle braghe di un attore!” Verissimo. Ma il gesto atletico di un montante parte dai piedi sul tappeto e dalle ginocchia, prolungandosi nella torsione del busto e poi lungo entrambe le braccia, delle quali uno resta al viso nella tensione della guardia e l’altro scaglia il colpo verso l’alto. Nei Rocky precedenti erano danze che contribuirono straordinariamente alla costruzione del mito attraverso una vera e propria epica visiva. Che qui latita, sacrificata a un quadro stretto su gomiti sfreccianti da busti mutilati. Invece la tuta grigia con il baffetto Nike per la classica corsa in strada si vede molto bene, fino alle scarpe coordinate. Per un buon marketing un bel totale ci voleva. No?