Media & Regime

Informazione e segreto professionale, da Ballarò a Piazzapulita: assalto a cronisti e fonti per normalizzare la stampa

Le Procure sono diventate aggressive. A rischio il diritto di dare le notizie "segrete" e pressioni su manager di Rai e La7 che non usufruiscono del segreto professionale. L'avvocato Malavenda: "Se passa il messaggio che l'anonimato delle fonti può essere aggirato, non ci saranno più inchieste, ma solo comunicati ufficiali"

Martedì è toccato a Piazzapulita. La Digos è stata inviata dalla Procura di Roma a eseguire un ordine di sequestro nella sede romana della rete di Urbano Cairo. L’obiettivo è dare un nome alla fonte anonima che aveva raccontato all’inviato del programma di Corrado Formigli lo stato scadente degli equipaggiamenti della Polizia. Per tutelare la fonte, il giornalista autore del servizio, Antonino Monteleone, avrebbe potuto rifiutarsi di consegnare il video integrale senza le schermature della voce e del volto adottate nella versione andata in onda proprio per proteggere la fonte.

Così i magistrati hanno pensato di andare direttamente dalla società editoriale che non può opporre nessun segreto professionale. Solo i giornalisti e non i manager, in base alla legge 69 del 1963,”sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse”. La redazione di Piazzapulita è insorta: “Questo metodo di aggiramento del segreto professionale è gravissimo e mette a rischio il libero esercizio della nostra professione, oltreché le fonti che decidono, proprio perché tutelate dal segreto, di dare informazioni che, diversamente, non giungerebbero all’opinione pubblica”.

Il caso non è isolato. Anche Ballarò aveva trasmesso un servizio sugli equipaggiamenti della Polizia dopo gli attentati di Parigi e anche in quel caso la Procura di Roma s’è fatta consegnare dalla Rai, e non dal giornalista Alessio Lasta, il girato: “Non possiamo non rilevare la gravità di un ‘metodo’, adottato dalla Procura, che scardina di fatto il diritto alla segretezza delle fonti, garantito ai giornalisti da norme disciplinate dall’ordinamento interno e comunitario, e consolidate da una vasta giurisprudenza”, commenta Massimo Giannini. Secondo il giornalista, “questo ‘metodo’ mette a repentaglio la libertà e la qualità dell’informazione. Per questo lo denunciamo con forza, e chiediamo alla nostra categoria di mobilitarsi e alla magistratura di riflettere”.

Questo comportamento aggressivo sul fronte televisivo fa il paio con quello che è accaduto ai giornali, come Il Fatto o il Corriere della Sera. In due casi – prima per aver pubblicato le intercettazioni delle conversazioni di Matteo Renzi e del “Giglio magico” col generale della Finanza Michele Adinolfi e, più di recente, quelle dell’inchiesta “Breakfast” di Reggio Calabria – i giornalisti che le hanno diffuse si sono trovati di fronte agli uomini della Direzione Investigativa Antimafia (Dia), latori di un doppio mandato: la richiesta di consegnare spontaneamente il file informatico del documento contenente le notizie o, in caso di rifiuto, l’ordine di eseguire una perquisizione sulla persona e su tutti i luoghi a disposizione del cronista per rintracciare computer, hard disk, pen drive e qualsiasi altro supporto del quale, i magistrati, delegavano la polizia giudiziaria a fare copia integrale del loro contenuto.

In pratica il messaggio brutale è: o consegni un file che ci aiuta a scoprire la tua fonte (mediante le proprietà, la data del salvataggio, eccetera…) oppure ti portiamo via (in copia) tutto l’archivio, tutti i tuoi contatti, tutte le tue email, in pratica tutte le tue fonti e la tua vita privata e professionale. In realtà l’alternativa del sequestro integrale della memoria dei pc del giornalista non sarebbe consentita. In un recente provvedimento di perquisizione – quello sulle intercettazioni dell’indagine “Breakfast” – la Procura di Reggio Calabria richiamava una sentenza della Cassazione che in realtà dice il contrario (Sesta Sezione penale, n. 24617/15 del 24 febbraio 2015, depositata il 10 giugno) “non può essere disposto un indiscriminato sequestro dell’intero computer, con copia dell’intero contenuto, essendo una modalità contraria alla necessità di individuazione della cosa da acquisire e di collegamento tra la cosa ed il reato da dimostrare; inoltre, più in generale, un sequestro così ampio e indiscriminato viola le regole in tema di proporzionalità tra le ragioni del sequestro ed entità dello stesso”.

Solo che i sequestri dei computer dei giornalisti, anche quando poi vengono annullati dalla Cassazione, raggiungono nel frattempo l’obiettivo: gli investigatori alla fine restituiscono il pc, ma lo hanno già scandagliato legittimamente, nell’attesa della sentenza. Incurante dei principi stabiliti dalla Cassazione e dalla Corte di Strasburgo, la tecnica aggressiva per risalire alle fonti del giornalista si sta diffondendo senza differenze tra i mezzi di informazione o gli uffici giudiziari. A rendere più inquietante la sequenza di provvedimenti è l’oggetto dei servizi giornalistici nel mirino, quasi sempre poteri forti: la Polizia, nel caso di Ballarò e Piazzapulita, il premier Renzi nel caso della Procura di Napoli, o leader politici, come Roberto Maroni e Silvio Berlusconi, nel caso della Procura di Reggio Calabria.

Tutte queste storie hanno un elemento in comune. Sono in contrasto con le sentenze della Corte di Strasburgo e della Corte di Cassazione che tutelano il segreto professionale, sostiene l’Ordine nazionale dei giornalisti: “C’è chi la legge la viola e c’è chi le norme le aggira. È singolare il tentativo della Procura di Roma di acquisire informazioni che i giornalisti, nel rispetto della legge, possono rifiutarsi di dare”, ha tuonato il presidente Enzo Iacopino: “La Procura, consapevole anche dei precedenti comunitari, non ha chiesto al collega Monteleone di indicare l’identità della sua fonte, ma si è rivolta all’emittente, La7, per avere il filmato integrale dell’intervista”. Un modo “furbo” – secondo Iacopino – per “aggirare gli ostacoli e identificare il poliziotto”: “È opportuno che il Consiglio superiore della magistratura si interroghi su comportamenti come questi che di fatto tendono a limitare il dovere dei giornalisti di fornire ai cittadini, che ne hanno pieno e incondizionato diritto, le informazioni, tanto più su un tema delicato qual è la sicurezza”.

Per l’avvocato Caterina Malavenda, massimo esperto di questioni giudiziarie legate al diritto di informazione e difensore di molti giornalisti coinvolti anche in queste vicende: “La Corte europea e la nostra Cassazione hanno da tempo detto parole definitive sulla illegittimità dei provvedimenti che, direttamente o indirettamente, mirano ad identificare la fonte di un giornalista: ciò per tutelare la libera circolazione delle informazioni – tanto più preziose quanto sono inaccessibili – che una fonte interna riferisce al giornalista sapendo che non rivelerà la sua identità. Se questa fiducia viene meno e passa il messaggio che il segreto può essere aggirato, non ci saranno più inchieste ma solo comunicati ufficiali, perché nessuno sarà più disposto a rischiare”.

Anche presidente e segretario generale della Federazione nazionale della stampa italiana, Giuseppe Giulietti e Raffaele Lorusso, sono intervenuti: “Ci muoveremo in tutte le sedi affinché quanto accaduto non abbia più a ripetersi e soprattutto non possa essere considerato un ‘grimaldello’ da utilizzare per aggirare e vanificare il segreto professionale dei giornalisti. Ci attiveremo fin d’ora per ottenere un incontro col presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli“.

Da Il Fatto Quotidiano del 14 gennaio 2016