Eugenio Scalfari era riuscito a costruire nei primi vent’anni di Repubblica, uno strano, strabiliante ibrido, vale a dire una macchina da guerra politica e insieme “il più autorevole quotidiano italiano”. Questo ibrido è diventato in questi ultimi vent’anni, sotto la direzione di Ezio Mauro, un giornale di battaglia politico-culturale e uno dei quotidiani più diffusi in Italia. Insomma, mentre Scalfari metteva i piedi nel piatto della politica, quotidianamente, riuscendo a rimanere “autorevole”, il giornale di Mauro tendeva a “prendere parte al discorso pubblico e alla battaglia culturale” eppure consentiva al Corriere della Sera, rianimato dalla “leggerezza” della doppia direzione Paolo Mieli e irrobustito dalla doppia direzione di Ferruccio De Bortoli, di risorpassarlo in autorevolezza.
Questa è certamente una differenza, di tipologia e di livello, fra le due direzioni. Ma c’è qualcosa che le accomuna, nel bene delle intenzioni e nel male dei risultati. Lo si rileva nello stesso editoriale di addio di Mauro. “Il genio di Scalfari quarant’anni fa ha cambiato il giornalismo”, egli vi sostiene, “ma soprattutto ha scommesso su un cambiamento del Paese che avesse le sue radici nella modernizzazione, nell’Europa, nella piena agibilità di un sistema politico bloccato”.
Una scommessa persa. Un cambiamento che purtroppo, ammette mestamente il successore di Scalfari e predecessore di Mario Calabresi, non è avvenuto. “E’ il traguardo che indichiamo da decenni”, rivendica, ma non l’abbiamo raggiunto. La “società politica dell’alternanza, nella distinzione feconda e vitale tra i concetti di destra e sinistra e le loro proiezioni politiche” è rimasta una “speranza”. Esattamente da quattro decenni. Nei primi vent’anni, scalfariani, ha dominato Craxi, il nemico n.1 dell’asserito “giornale partito”, per tacere degli altri; nei secondi vent’anni, mauriani, ha dominato Berlusconi, il nuovo nemico n.1 per il giornale che ha combattuto contro conflitto di interessi, “abuso di potere legittimo”, leggi ad personam, strapotere mediatico, compravendita di parlamentari, malcostume e corruzione…
E adesso – dopo aver contrastato ma anche involontariamente esaltato, con la titolazione forzata e le cronache ossessionanti il “nemico” di turno, ma anche i comportamenti riprovevoli che più sembravano e sembrano prestarsi alla “cronaca forte”, al titolo che “acchiappa” il lettore, alla esagerazione della realtà, per non parlare delle istanze commerciali e pubblicitarie alla base di molte scelte redazionali in materia di costume, di tendenze, di mode, ecc. ecc. – adesso che rimane? Quale Italia politica, quale nemico o avversario o interlocutore o addirittura compagno di strada si consegna nelle mani di Calabresi, il terzo direttore, il primo scelto direttamente dall’editore e non più dal fondatore?
Mauro, anche qui, sostiene che la Repubblica “ha visto, letto e contrastato il cambio di egemonia culturale che ha investito il Paese negli ultimi vent’anni” e che “ha aperto naturalmente la strada alla destra politica”. L’ha vista, letta, contrastata ma evidentemente non è riuscita a vederne la sconfitta, a contribuire a sconfiggerla.
Che farà ora Calabresi, di fronte a questo cambio di egemonia? E in quale posizione, rispetto ad esso, lo scalfariano Mauro pone la leadership di Matteo Renzi? In quale categoria, innanzitutto? Nella sinistra, nel centro-sinistra, nel centro, nel “partito della Nazione” o addirittura tra i frutti del cambio di egemonia a favore della destra politica? Mauro, nel suo editoriale di addio, pare non prendere nemmeno in considerazione Renzi né ciò che ne ha reso possibile la leadership, che la contraddistingue e che essa ha prodotto e produrrà nel Paese, oltre che evidentemente dentro la “community” di Repubblica. Mauro, al contrario di De Bortoli, non dice nemmeno se abbia sentito, nel cambio di egemonia in corso nel Pd, nel centro-sinistra e nella politica italiana, lo “stantio odore della massoneria”.
Questo, sembra dire Mauro, ora è affare di Calabresi. E’ lui che deve decidere se continuare la guerra di Scalfari e le battaglie di Mauro o, insieme e spalleggiato dall’editore e “tessera n.1 del Pd” Carlo De Benedetti, interloquire con il “nuovo” emerso dall’“amalgama non riuscito” fra i resti del Pci e i resti della Dc.
Ma probabilmente la soluzione del problema è altrove, rispetto alla tradizione di Repubblica, “a cui viene chiesto”, osserva scalfarianamente Mauro, “non solo di informare ma di prendere parte…”. Prendere parte: alla fine – parlando con decenza – come fanno Feltri, Sallusti e Belpietro. Ciascuno dalla propria parte, per la propria parte.
Dalle parti di Repubblica non ci si è mai chiesti, sinora, se un quotidiano non abbia invece l’unico ed esclusivo dovere di “informare”, nel più intelligente, articolato ed efficace dei modi, senza la pretesa di “formare”, di imporre “una certa idea dell’Italia” (titolo dell’editoriale di Mauro) o addirittura “una certa idea di mondo” (titolo di una delle feste di autoesaltazione di Repubblica).
Né se fra i mali di questo Paese, in questi quarant’anni, non debbano essere inseriti anche l’assenza di un giornalismo, di un grande giornalismo, capace di informare (e che informando tenda a rappresentare pezzi di opinione pubblica) e il predominio di una informazione schierata che ha programmaticamente imposto opinioni (e interessi) di parte, nella pretesa di formare essa, dall’alto, pezzi di opinione pubblica.
Stretto fra Scilla e Cariddi, tra “azionismo di massa” e derubricazione della “battaglia culturale” a lucrosa (per l’editore) narrazione dell’esistente – e dicendolo un po’ più terra terra, qui ed ora, tra anti-renzismo e filo-renzismo – Mario Calabresi potrebbe prendere il largo dando vita, più semplicemente, ad una terza fase di Repubblica: fare giornalismo, fare un giornale, fare informazione e basta (cosa che, sia chiaro, è più gravosa e complicata, oltre che più utile per un paese come l’Italia, che fare un giornale di opinione e di parte).
Si spera, per il bene di tutti, che abbia le capacità, la voglia e la possibilità di farlo.