La studentessa di 20 anni venne violentata e massacrata con 29 coltellate. Il cadavere venne trovato in un bosco in provincia di Varese il 7 gennaio 1987. Stefano Binda, che come lei frequentava Cl, è stato individuato grazie a una lettera anonima dove veniva raccontato il delitto inviata il giorno dei funerali alla famiglia. "L'assassino la uccise perché considerava l'atto sessuale come un tradimento da punire con la morte"
C’è una svolta nell’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di 20 anni trovata cadavere in un bosco in provincia di Varese nel 1987. Gli inquirenti sono convinti di aver arrestato il presunto killer rimasto sconosciuto per 29 anni. Si tratta di Stefano Binda, 49 anni, di Brebbia, che frequentò lo stesso liceo della ragazza e lo stesso ambiente legato a Comunione e Liberazione. Secondo gli investigatori fu lui il 5 gennaio ’87 a stuprare e poi a uccidere con 29 coltellate la studentessa di Legge alla Statale di Milano. Il suo corpo venne ritrovato due giorni dopo in un bosco di Cittiglio, nel Varesotto, mentre il caso acquistò sempre più interesse nazionale. Il fermo è arrivato grazie a un confronto calligrafico tra una lettera inviata ai familiari e alcune cartoline spedite 30 anni fa da Binda a un’amica, che nel giugno scorso, vedendo la missiva anonima pubblicata su La Prealpina, riconobbe la scrittura del 49enne. L’arresto è stato eseguito dagli uomini della squadra mobile di Varese su disposizione del gip di Varese Anna Giorgetti, che ha accolto la richiesta del sostituto pg di Milano Carmen Manfredda. L’accusa è quella di omicidio volontario aggravato dai motivi “abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa” della vittima.
La lettera che ha portato a Binda venne scritta in stampatello su un foglio bianco, di quelli da inserire nei quaderni a ganci, su due colonne dove venivano riportati molti particolari del delitto e il movente “religioso”: anche se questo verrà decifrato solo 29 anni dopo. La missiva venne recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio, giorno delle esequie, quando ancora molti dettagli del delitto non erano emersi. Dunque solo il killer – ragionano gli inquirenti – poteva averla scritta. La “poesia” si intitolava “In morte di un’amica“. Otto strofe. Versi macabri dove Lidia veniva descritta come “agnello sacrificale“, “agnello senza macchia” e “agnello purificato”. Vittima di “orrenda cesura” e “strazio di carni”. In una “notte di gelo, che le stelle son così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace”. “Nel nome del Padre sia la tua volontà”, la preghiera con cui si chiude la lettera: una lucida descrizione del massacro.
“Lidia voleva salvare Binda dall’eroina”
Ma che rapporto avevano Lidia e Stefano? Il gip li definisce “buoni amici“. Il “collante” tra loro era “il medesimo ambiente culturale del movimento di Cl“. E forse Lidia, una brava ragazza impegnata negli scout, si era messa in testa di dare una mano a Stefano per chiudere con l’eroina. Binda, dalla personalità fragile e descritto come un “intellettuale dannato“, aveva iniziato a farne un uso “saltuario”. Poco prima del Natale ’86, la studentessa va anche in libreria per comprare diversi testi sulle tossicodipendeze. Tra loro nasce anche “un’infatuazione reciproca”, “un’attrazione”, che comunque non porta a una storia.
“Lidia venne punita”
Il 5 gennaio però succede qualcosa nella mente di Binda, probabilmente alimentato dalla sua ossessione religiosa. Lidia esce di casa nel pomeriggio per andare a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio. Quando esce trova ad aspettarla Binda, che sale sulla sua Panda. I due si allontanano e raggiungono un boschetto. E’ qui che scatta il cortocircuito nella mente del ragazzo. Le sue “pulsioni prendono il sopravvento”, scrive il gip. Ma “Lidia non pensa nemmeno remotamente a fare l’amore”. Lui allora la violenta. Ma subito dopo viene soffocato dalle “sue ossessioni religiose“. E’ “irato, delirante, identifica in Lidia la fonte dell’antichissimo errore, il peccato originale che lo ha rovinato per sempre”. “Il tradimento da purificarsi con la morte”. E’ in quel momento che “perde la testa”, scrive ancora il gip. “Estrae un coltello e colpisce”. Ventinove volte dirà l’autopsia. Soprattutto alla schiena, ma anche alle gambe. Lidia cerca di fuggire. Morirà per asfissia. Dopo una lenta agonia.
Per 29 anni omicidio rimasto un cold case
Durante questi 29 anni gli investigatori non hanno mai smesso di cercare l’assassino. Quello di Lidia Macchi fu il primo caso in Italia dove venne usato il test del Dna, che all’epoca però non servì a risalire al killer. Nonostante questo è rimasto bollato almeno fino a oggi come un cold case. Del delitto venne sospettato un religioso che conosceva la studentessa, ma la sua posizione è stata archiviata. Così come quella di Giuseppe Piccolomo, già condannato all’ergastolo per il delitto ‘delle mani mozzate‘, avvenuto nel novembre 2009 sempre in provincia di Varese. L’inchiesta è stata riaperta nel 2013 dal sostituto procuratore generale di Milano Manfredda, che aveva avocato le indagini prima coordinate dalla Procura di Varese.
La svolta grazie a un’ex amica
In questi 29 anni Stefano Binda non è mai stato sfiorato da sospetti. Subito dopo l’omicidio si premurò di darsi un alibi sostenendo di essere stato in vacanza lontano da Cittiglio fino al 6 gennaio. Una versione che riascoltata oggi non convince gli inquirenti. Per il gip, Binda la ripropone concordandola a tavolino con un amico. Nel frattempo si laurea in Filosofia, combatte il mostro dell’eroina e vive con la madre, non riuscendo mai trovare un’occupazione fissa. Entra nel radar degli investigatori solo nel 2014. Una sua ex amica sta guardando il programma Mediaset “Quarto Grado” e viene a sapere che nella borsa di Lidia viene trovata la poesia di Cesare Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, una vera “ossessione” di Binda. Non solo.
Binda scrisse: “Sono un barbaro assassino”
La stessa donna nel giugno scorso vede pubblicata la lettera che l’anonimo spedì alla famiglia di Lidia. “Mi colpiva la grafia in quanto da subito mi è parsa familiare (…) così andavo a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano e con sorpresa notavo una grande somiglianza della grafia”, mette a verbale la donna il 24 luglio scorso. La perizia comparativa tra quelle cartoline e lo “scritto” anonimo ha permesso, stando all’ordinanza firmata dal gip di Varese, di “svelare” l’autore di quel “componimento in versi”: Stefano Binda. Ora la madre di Lidia, Paola Macchi, si dispera perché quel ragazzo “faceva parte delle conoscenze” e si presentò nella loro casa anche dopo l’omicidio. Il legale dei Macchi, Daniele Pizzi, ha detto che la famiglia “ha provato gioia, non certo per l’arresto ma per la svolta nelle indagini”. Lo stesso Binda sembrerebbe aver ammesso la sua colpa. Durante una perquisizione nella sua abitazione a settembre è stata trovata un’agenda Smemoranda dell’87. Mancano le pagine dei giorni in cui Lidia venne uccisa e ritrovata. All’interno c’è un foglio dove è scritta una frase “ascrivibile allo stesso Binda”. “Stefano è un barbaro assassino“.