La pellicola tanto attesa non sembra scontentare nessuno: chi si aspetta una coscienza da cineasta adulto e consapevole sulla materia trattata; ma anche chi cerca l’autore che fa palpitare il racconto spettacolare e d’avventura alla Jack London
Giù il cappello. Finalmente arriva The Revenant. Tutto, nel nuovo film di Alejandro Gonzalez Inarritu, dal più insignificante frammento buio e notturno, al più plateale dettaglio di violenza, scontro armato, sangue e frattaglie, sa di naturale perfezione. Da questa sorta di compito stilistico perfetto non si può scappare. E dentro questa dimensione che The Revenant va visto, come in immersione, per due ore e quaranta. Il realismo esasperato e spettacolare dell’unico, finto, piano sequenza in Birdman qui viene declinato nel virtuosismo eterogeneo e generalizzato della costruzione millimetrica di ogni set e di ogni punto macchina.
I particolari di abbigliamento, acconciatura, sporcizia, ferite e oggettistica sembrano, nella loro perfettibile verosimiglianza, davvero qualcosa di alieno e inabituale per qualsiasi tradizionale ricostruzione cinematografica blanda e rassicurante di un’epoca lontana. La frontiera americana del 1822, quella del manipolo di volgari e zotici cacciatori di pelli, orientati dalla conoscenza del territorio di Hugh Glass (Leonardo DiCaprio), che si scontrano con dei sanguinari pellirossa sulle gelide rive del Missouri, è un luogo primitivo e inospitale come poteva esserlo solo una grotta della preistoria. Qui si consuma l’esasperato realismo di messa in scena di Inarritu, e del suo straordinario direttore della fotografia e operatore di macchina Emmanuel Lubezki: luce più naturale possibile che penetra nell’obiettivo e costringe a decifrare e ricostruire di volta in volta dettagli, visi, silhouette degli attori e dei luoghi; l’alito dei protagonisti che talvolta appanna la lente dell’obiettivo; macchina da presa a pochi millimetri dai corpi, rami, tronchi, sassi e rocce, e ad altezza ginocchio sia per seguire DiCaprio ferito a morte che per due ore di film sta letteralmente sdraiato, a carponi, chinato, nascosto, mimetizzato con il fogliame e la neve, sia per mostrare come da testimone embedded, vivo e reattivo, la crudeltà di quella selvaggia quotidianità.
Il senso di vuoto e di acrimonia nella vita dei trapper, la solenne, durissima e violenta indipendenza dei nativi, tendono a mescolarsi nell’infinita e mai doma gara per la sopravvivenza. Qui sta l’epica della frontiera e qui nasce, si sviluppa e tramanda la leggenda dell’eroe, Hugh Glass, in fin di vita dopo essere scampato all’aggressione di un orso Grizzly, e lasciato volontariamente da suoi due compagni di esplorazione a morire da solo. La presunta cronaca giunta fino a noi, narra di una rinascita di Glass e, tra mille pericoli, meteorologici, ambientali e umani, il suo ritorno da “revenant” al primo avamposto militare dopo 400 chilometri di fuga. Ma è qui che Inarritu, e lo sceneggiatore Mark L. Smith, hanno come un guizzo di scrittura che dona a The Revenant perfino un anelito politico alla Soldato Blu.
Perché Glass/DiCaprio è sì l’eroe che sopravvive e si vendica ferocemente del trapper che l’ha tradito (nella realtà pare che ciò non avvenne), dando al film un respiro tipico da western, con tanto di duello (a proposito qual è il vero western nella neve di questa stagione cinematografica: Inarritu o Tarantino?); ma è nella costruzione fittizia di un (possibile) passato di Glass tra gli indiani Pawnee fatto di soldati che sterminano tribù, l’amore per una pellerossa, e nel film addirittura un ‘figlio’ grande avuto da lei che lo accompagna e segue nella tragica spedizione, che The Revenant si sbilancia in un cinema con un’anima più impegnata. Non che ci sia nessuna indulgenza nel rappresentare gli Arikara, i pellerossa non sono “buoni”, uccidono senza pietà comunque, come i bianchi coloni. Il punto di fondo è la maturità e l’oggettività di sguardo di chi filma che fa capire un solo dato: quella è casa loro.
È così che la poesia ammanta di dolore la rinascita di un DiCaprio in incredibile spolvero, tignoso e risoluto negli sforzi di difesa, chiaramente costretto a prove di reale sopravvivenza sul set. Quando la m.d.p. posizionata sotto la roccia in riva al fiume, in un breve piano sequenza segue una sorta di traiettoria esplorativa dello spazio circostante per dare l’idea al fuggitivo Glass di quanto siano vicini e incombenti gli Arikara che lo inseguono, viene come a mancare il fiato. In questa mimesi tra occhio del protagonista(i) e occhio dello spettatore Inarritu è davvero insuperabile. Se poi aggiungiamo che Tom Hardy, il traditore Fitzgerald, è un orrendo e sadico villain, The Revenant non sembra scontentare nessuno: chi si aspetta una coscienza da cineasta adulto e consapevole sulla materia trattata; ma anche chi cerca l’autore che fa palpitare il racconto spettacolare e d’avventura alla Jack London. Da Oscar: senza se e senza ma.