Henry Moore è essenzialmente famoso per le sue sculture di forme femminili stilizzate, gigantesche e voluttuose allo stesso tempo, ma una piccola scultura in bronzo, esposta alla mostra che si è tenuta recentemente alle Terme di Diocleziano a Roma, mi è sembrata particolarmente inquietante e suggestiva. Una donna con il volto dalle molteplici punte tiene il figlio ben lontano da sé stringendolo per il collo, come a volerlo strozzare. Il figlio, da parte sua, non sembra meno bellicoso, volto aguzzo serpentino si protende voracemente su un misero seno per una fame esasperata che la madre fatica a contrastare.
Scolpita nel 1953/54, quest’opera supera la rassicurante icona della “Madonna con il bambinello” per mostrare un rapporto tra madre e figlio che può diventare drammatico e violento. Un grande buco nello stomaco di questo piccolo e truce divoratore diviene il simbolo dell’insaziabilità. Ma è possibile una lettura su scala più ampia, allineata con la nostra epoca. Questo piccolo gioiello di bronzo diviene allora il simbolo dell’odio che spinge alla lotta per la sperequazione fra chi possiede, e vuole mantenere le proprie risorse, e chi non ha ed è spinto a conquistarle.
La didascalia che illustra l’opera, parla di una “cattiva madre” e di un “piccolo matricida”, come se entrambe queste persone si portassero dentro una tara che ne condiziona il destino e le rende ben diverse dalle numerose e amorevoli “maternità con figlio” presenti nella stessa sala.
Lettura che può sembrare molto rassicurante, perché divide il mondo in buoni e cattivi, in ricchi e poveri per una sorta di fatalità, come se un ineffabile destino creasse gli estremi di una media statistica alla quale bisogna rassegnarsi.
Il pericolo è di innescare una bomba ad orologeria, perché siamo portati a vedere i cattivi negli altri e i buoni in noi stessi, due poli opposti che prima o poi non potranno che generare una scarica mortale.
Ma non c’è cattiveria in questa coppia, c’è un bambino spinto a conquistare le risorse essenziali per la propria vita che sente, a torto o ragione, che gli vengono negate e una madre che teme di essere depauperata da qualcosa che, a torto o a ragione, sente irrinunciabile.
Madre e figlio esprimono allora anche le loro ragioni, la ricerca di libertà ed affermazione, l’illusione distorta di poter finalmente uscire dal senso di impotenza attraverso il sacrificio dell’altro che segnerebbe anche la propria fine.
Siamo di fronte ad una relazione che si basa sull’odio che si nutre di rabbia, di invidia, di disprezzo e dell’idea onnipotente che si stia combattendo per una causa giusta, una sorta di sirena che ci attira verso il precipizio come topi che seguono il pifferaio magico.
Il contatto con la realtà cede il posto all’ideologia, all’integralismo e al fanatismo, che devono tenere a bada la sofferenza che le azioni contro noi stessi e il nostro prossimo potrebbero suscitarci.
Oggi sembra diffusa la sindrome di Sansone che uccise più persone con la sua morte che in tutta la sua vita. E’ scontato che di fronte alle manifestazioni dell’odio bisogna innanzitutto cercare una sicurezza: stigmatizzare, prevenire, impedire concretamente che l’odio si trasformi in azioni. Ma questo rischia di diventare un cerimoniale scarsamente efficace se si affievolisce o, ancor peggio, si esaurisce, il desiderio di continuare a comprendere, attraverso gli occhi del nostro nemico, le dinamiche del puntuale riaffiorare della distruttività in ognuno di noi.