Politica

Il Quarto di Grillo e l’oncia di carne

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Mentre si assiste rapiti al frenetico Ballo del Qua Qua-rto, originale format dove i più eminenti contorsionisti politici (dal Tristo Trio in Cravattino ai Buzzi-coni Indignados) si esibiscono in strabilianti acrobazie, nell’atmosfera neo-fantozziana da rutto libero si insinua un dubbio orrendo.

Per giorni si sono sviscerate decine di minuziosi dettagli, setacciati gli atomi di ogni comunicazione, tra intercettazioni, comparsate e screenshot, trascurando accuratamente il vero liquame fetido che impregna tutta la vicenda.

Se in un Comune i voti della camorra (o di altro sodalizio criminale) sono talmente numerosi da condizionare – o peggio, determinare – il risultato elettorale, rispedire a casa l’amministrazione, il sindaco, gli assessori e magari pure l’usciere e l’autista è un atto di eccelsa futilità. E’ del tutto risibile che i cacicchi della nomenklatura piddina e i dilettanti allo sbaraglio che aspirano a sostituirli, si rinfaccino le nefandezze nel patetico tentativo di estrarre dall’avversario la shakespeariana oncia di carne politica.

Se in un Comune, in una Provincia, in una Regione, in un collegio elettorale il crimine organizzato controlla cospicui pacchetti di voti il vulnus macroscopico alla democrazia, il macigno di iridio sulla gente onesta, sono paradossalmente le elezioni stesse, indipendentemente da chi le vinca. Il voto di un mafioso vale numericamente quanto quello del Presidente di Cassazione o di Madre Teresa. Se la Pubblica Amministrazione gestisce una caterva di risorse (soprattutto in zone dove l’impresa privata sana, indipendente dai favori governativi e impermeabile ai ricatti è un fenomeno impalpabile), i criminali di qualsivoglia risma, taglia e abilità di cabotaggio avranno sempre le casse pubbliche come oggetto criselefantino del desiderio.

Giusto quattro sfigati continueranno a pungersi le dita e a regolare i conti con le armi, quando il controllo del territorio e delle risorse è a portata di mano nella piena e riverita legalità formale grazie a poche migliaia di voti che spostano il pendolo elettorale e gonfiano il bottino di preferenze. Per non parlare delle primarie dove si mercanteggiano rom e cinesi a due euro o addirittura alle parlamentarie via web dove non c’è neanche bisogno di far votare gente in carne ed ossa, basta costruire duecento identità cibernetiche fasulle per trovarsi assisi a Montecitorio. Ecco perché dai Municipi al Parlamento, soggetti in odore di mafia, camorra e ‘ndrangheta vengono ossequiati e candidati. Il controllo del voto si traduce nel controllo della legge e di conseguenza sono i criminali a scrivere le regole e a farle applicare.

Per riassumere il concetto, nelle aree ad alta densità criminale le elezioni sono l’ago con cui il malaffare ed il delitto si cuciono addosso l’abito della legalità. Pertanto quando un ente locale viene sciolto per collusioni con la criminalità è demenziale rifare le elezioni dopo qualche mese nella speranza che i picciotti nel frattempo siano evaporati e i rapporti occulti si siano dissolti.

Al massimo si ridisegnano i rapporti di forza tra una cosca e l’altra, si sfronda l’albero da qualche ramo più o meno marginale, ma le radici elettorali della criminalità non vengono seriamente intaccate. Insomma, come ha osservato Lucio di Gaetano nel suo blog qui su ilfattoquotidiano.it, “Non si può far politica, in alcune zone del Paese, senza fare i conti con la criminalità organizzata: chi fa finta di dimenticarlo è nella migliore delle ipotesi imbecille, nella peggiore in mala fede”.

Infatti anche se il nuovo sindaco o la nuova amministrazione fosse formata da politici incorruttibili e integerrimi (come ogni tanto accade), essi diventerebbero comunque un facile bersaglio e si troverebbero a dover combattere a mani nude contro un potere che non molla l’osso senza azzannare. Padri o madri di famiglia non possono essere spediti in prima linea in una guerra del genere con il solo potere di lamentarsi sui giornali (quando qualche direttore si degna di mandare uno stagista ad intervistarli) di essere lasciati soli e senza mezzi.

Per colmo di ironia – o meglio, di tragedia – in questo mondo perverso persino i baluardi dell’antimafia diventano il terreno dove allignano interessi mafiosi, come dimostrano le vicende di giudici e associazioni che gestiscono i beni confiscati o di presunti paladini confindustriali della lotta al racket. Insomma non si può sperare che la soluzione venga da misure palliative o dalla fantomatica società civile se addirittura associazioni come Libera vengono coinvolte in polemiche da un magistrato in questi termini: “Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittano del suo nome per fare i propri interessi”.

I territori ad alta densità criminale (inclusa Roma e tanti comuni del Nord) dopo lo scioglimento delle amministrazioni dovrebbero essere gestiti, per almeno 5 anni, non da politici eletti, ma da commissari specificamente addestrati e nominati di concerto tra governo centrale, Presidenza della Repubblica e Presidenti dei Tribunali con l’incarico di ripulire non solo le amministrazioni, ma tutto il territorio dall’influenza preponderante delle cosche conferendo risorse, uomini e poteri d’intervento. Finché una tale bonifica non viene completata, le urne rimarranno la cinghia di trasmissione della delinquenza alla politica fino a quando il confine tra i due ambiti, peraltro già molto labile, non sarà del tutto svanito, come nel Messico dei narcos.

E non saranno certo i Don Chisciotte e Sancho Panza da meet up, gli ineffabili eredi di dinastie politiche indignati dal catoblepismo, i Cantone o le trote felpate a spiantare la peste nel Belpaese.