L'uomo è accusato di aver ucciso la studentessa nel 1987. Ora è rinchiuso nel carcere di Varese dove martedì 19 gennaio verrà interrogato dal Gip Anna Giorgetti. "Sono tranquillo, aspetto che tutto si chiarisca". Ma per il giorno dell'omicidio non ha saputo fornire un alibi credibile
“Sono tranquillo, non c’entro nulla, aspetto che tutto si chiarisca”. Sono le prime parole di Stefano Binda dopo essere stato condotto nel carcere Miogni di Varese. L’uomo è accusato di aver ucciso l’ex compagna di liceo Lidia Macchi, trovata morta il 7 gennaio 1987, quasi tre decadi fa. “Non riesce a spiegarsi come dopo tanti anni sia finito in questa situazione, continua a negare di aver ucciso lui Lidia”, ha affermato il suo avvocato Sergio Martelli che aggiunge: “Certo trovarsi in cella non è una esperienza che faccia piacere a nessuno. Ma mi sembra che stia reagendo con tranquillità e ovviamente continua a negare”.
Binda ha invece espresso grande preoccupazione per le condizioni della madre, ultrasettantenne, con la quale vive a Brebbia (Varese), nella stessa villa in cui anche la sorella con il marito. Il primo interrogatorio davanti al Gip Anna Giorgetti è previsto per martedì 19 gennaio. L’uomo deve difendersi dalle accuse di omicidio volontario aggravato dai motivi “abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa” della vittima. Stefano Binda e Lidia Macchi avevano frequentato lo stesso liceo classico, il Cairoli di Varese, ed entrambi facevano parte di Comunione e Liberazione. Il Gip li definisce “buoni amici”. Secondo l’accusa, il 5 gennaio del 1987, i due andarono insieme in un boschetto di Cittiglio (Varese) dove la ragazza si rifiutò di aver un rapporto sessuale con Binda che per questo la uccise con 29 coltellate. E per quella sera il presunto assassino non ha un alibi.
La svolta delle indagini, a quasi 30 anni dall’omicidio, è avvenuto l’estate scorsa quando la Prealpina pubblicò una lettera anonima, in cui venivano riportati molti particolari del delitto, inviata ai familiari della giovane studentessa. Un’amica di Binda riconobbe la calligrafia del 49enne. La confrontò con alcune cartoline ricevute dallo stessi Binda e portò il materiale agli inquirenti. Le indagini sono ripartite da lì e si sono concentrate sul 49enne che fino ad allora non era mai stato sfiorato dal caso.