Questo pezzo piacerà meno del solito. Per la verità, piace poco persino a me. Perché è vero. Veri i numeri, vero il disappunto, vere le scelte. Veri le incognite, veri i rischi e vere le soddisfazioni.
Come qualche lettore forse ricorderà, quasi due anni fa ho intenzionalmente abbandonato il fatidico posto fisso, un incarico piuttosto prestigioso e decorosamente retribuito in un gruppo finanziario. A fare cose “serie”, diciamo. Delicate. Strategiche. Responsabilizzanti. Aggettivo ingannevole, quest’ultimo. Perché inevitabilmente relativo. Relativo al contesto in cui mi trovavo, cioè. Io ero sì responsabile in quel contesto, ma ero anche dannatamente irresponsabile in molti altri. Salto i passaggi intermedi, che racconto nel mio libro, per dire che si arriva inevitabilmente al punto in cui, se alla mattina vogliamo continuare a guardarci allo specchio senza abbassare lo sguardo, il salto dobbiamo per forza farlo. E infatti lo feci. Con la fine del 2015, si è chiuso il mio primo anno interamente privo di uno stipendio mensile fisso e regolare. Un anno in cui sono finalmente riuscito a farmi le regole che possono servirmi. La prima e più importante di queste regole si chiama tempo: non sono più gli altri a scandirlo per me al mio posto, adesso. Questa cosa è impagabile, quasi indescrivibile. Credo che abbia intimamente a che fare con il concetto di libertà…
In questi giorni ho rimesso in fila le cose, ripensandole e rivalutandole con chiavi di lettura finora sconosciute. Ho provato a rispondere a un quesito molto semplice: per chi, o per che cosa, si lavora?
Per farlo, ho elencato tutte e sole le spese che nel 2013, ultimo anno interamente stipendiato, ho sostenuto per il solo fatto di… lavorare! Tutte le spese cioè che, piccole o grandi che fossero, ero indotto a sostenere soltanto perché mi trovavo inserito in quel meccanismo, la famosa ruota del criceto. Ho quindi convertito l’ammontare di quelle spese in ore e giorni di lavoro, banalmente dividendole per il mio stipendio orario netto. In pratica, ho applicato alla lettera la filosofia di José Pepe Mujica, in base alla quale “quando compriamo qualcosa, non la compriamo con i soldi, ma con il tempo della nostra vita che ci è servito per guadagnarli”.
Vediamo:
– Bar. Al bar ci andavo tre volte al giorno (prima di entrare in ufficio, a metà mattinata insieme ai colleghi, e in tarda mattinata per un caffè volante), a cui va aggiunta una ricarica settimanale media di 5 euro sulla chiavetta delle macchinette. Nota (per prevenire sicure obiezioni): la spesa per brioche e cappuccini non è da ritenersi facoltativa, perché in certi ambienti il bancone del bar è un luogo di lavoro esattamente uguale – se non addirittura più efficiente – alla propria scrivania, perché è dove si stringono relazioni con persone di altri uffici e si scambiano informazioni spesso basilari per la propria attività. Totale: 15,2 giorni di lavoro. Dovevo cioè lavorare più di quindici giorni all’anno, solo per potermi finanziare le colazioni al bar.
– Pranzi fuori. Spesa giornaliera eccedente il buono pasto, moltiplicata per 220 giorni lavorativi. Totale: 11,3 giorni di lavoro.
– Cene fuori. Questa voce – è vero – non dipende tecnicamente dal fatto di lavorare: mia moglie ed io avremmo in effetti potuto cenare ogni sera a casa, preparandoci da soli qualche manicaretto. Ma… alle dieci di sera? In quanto, rientrando dal lavoro tardi, non avevamo né il tempo, né la testa, né la voglia per metterci ai fornelli. I ritmi a cui eravamo sottoposti ci obbligavano quindi ad andare fuori a cena mediamente un paio di volte alla settimana. Totale: 22,9 giorni di lavoro.
– Acqua minerale. Questa voce la isolo perché all’epoca, sempre per ragioni di tempo, prendevamo l’acqua al supermercato e non – come avviene oggi – gratuitamente all’acquedotto. Totale: 2,6 giorni di lavoro.
– Vacanze. Tema delicato, questo. In quanto, come per le cene fuori, nessuno ci obbligava tecnicamente a fare vacanze dispendiose. Ma, ancora una volta, quando si vive in un certo contesto, le vacanze diventano purtroppo un modo per dimostrare di farne legittimamente parte. Una specie di certificato di idoneità. Ricordo che una volta si fece un bellissimo giro a piedi di alcuni giorni su un antico tracciato del nostro Appennino, spendendo cifre irrisorie: il risultato fu che, al lunedì mattina, provai una certa vergogna a comunicare questa scelta ai colleghi. Ai fini di questo calcolo, considero quindi ogni anno una vacanza “corposa” e tre weekend in giro per l’Italia per un totale di 40,3 giorni di lavoro.
– Abbigliamento. Una delle regole non scritte nell’ambiente era un abbigliamento formale piuttosto elegante. Considero quindi in media ogni anno: 3 camicie, 2 completi giacca+pantalone, 3 cravatte, 2 paia di scarpe, 1 giaccone o soprabito. Tutto di qualità medio-bassa e preso rigorosamente in saldo. Totale: 13,2 giorni di lavoro.
Fino a questo punto il totale è di 105,4 giorni di lavoro.
Poi c’è tutta una serie di altre voci che, sebbene singolarmente meno incisive, concorrevano comunque a gonfiare il totale. Mi riferisco per esempio a: previdenza integrativa (quota della mia retribuzione girata al fondo pensione), carburante per tragitto casa-lavoro (fortunatamente nel mio caso abbastanza modesto), lenti a contatto (possedevo un paio d’occhiali con una montatura del 1992 e, per le stesse ragioni di dress-code dette sopra, erano improponibili), alcuni farmaci e parafarmaci (per piccoli malanni che, guarda caso, da quando non vado in ufficio non mi colpiscono più), quotidiani e riviste (necessarie per aderire – almeno formalmente – a un circuito informativo mainstream, necessario per non sembrare dei disadattati), più altre voci marginali. Includendo anche queste voci, il totale dei giorni che lavoravo soltanto per “finanziare” la mia appartenenza a quel meccanismo sale a 148,7 giorni.
Dei 220 giorni lavorativi annuali, quasi 150 (il 67,6%) mi servivano soltanto per aderire a quel modello. Senza che mi venisse in tasca niente di più. Niente di cui avessi effettivamente bisogno, niente che servisse a me, alle persone che amo, alle mie passioni, alla percezione di un Senso…
Per due terzi del mio tempo vivevo per lavorare. E ve l’ho appena dimostrato.
Ora fermiamoci un attimo. Perché adesso è perfettamente normale che molti di voi alzino qualche ponte levatoio. Molti lettori potrebbero persino aggrapparsi alle possibili incongruenze dei miei calcoli. Vi risparmio la fatica: di incongruenze ce ne sono di sicuro. Come altrettanto sicuramente le mie misurazioni sono state in qualche caso approssimative (se non altro in quanto soggettive). Di più: certamente la mia condotta non è stata irreprensibile. Ho indubbiamente ceduto su molti fronti: avrei potuto evitare qualche cappuccino, qualche cenetta fuori e persino quel weekend a Volterra. Però, altrettanto onestamente, domandiamoci: di quanto si sarebbe abbassato quel 67,6%, senza quelle incongruenze? Davvero credete che si sarebbe abbassato a sufficienza per non farci vergognare dei gerani che comunque tutti noi, anno dopo anno, appendiamo alle sbarre della nostra cella? Se anche fosse sceso al 50%, potremmo forse ritenerci soddisfatti?
E infine estendiamo il ragionamento dal particolare all’universale: dalla vicenda personale, mia e di molti altri, ad una sua proiezione sistemica. Guardiamo a cosa corrispondono veramente quelle due quote di giornate lavorative: il 67,6% impiegato per restare in quel circuito e il 32,4% per tutto il resto.
Circa un terzo del tempo che dedichiamo al lavoro serve effettivamente per consentirci di acquistare il cibo, pagare le utenze, finanziare la cultura e, qualora avanzasse qualcosa, risparmiare due soldi: in pratica, sono i beni di prima necessità. Per i quali, va detto, occorre molto meno denaro di quanto ci facciano credere. Ma i due terzi rimanenti servono esclusivamente a tenere in vita il sistema produttivo e la megamacchina commerciale, inventando continuamente per noi nuovi bisogni fittizi e alimentando così il pil, questo dogma contabile che misura la “crescita” delle attività umane, senza però poter considerare – né soprattutto procurare – alcuna felicità alle persone.
Ribattere che in questo modo si fornisce un’occupazione anche al barista che mi faceva i caffè, è fuorviante e banale: la semplice ma inconfessabile verità è che l’intero paradigma è basato su quell’inganno. E che, anche se forse non si è ancora posto queste domande, lo stesso identico discorso vale anche per quel barista.