Mai un Oscar o un Golden Globe per lui in 49 anni di carriera e 10 lungometraggi per il cinema all’attivo. L’esordio ufficiale è nel 1966 con il cortometraggio Six Men getting sick: quattro minuti in cui quattro teste d’uomo disegnate vomitano su un pannello sotto di loro a passo uno, quasi fossero pupazzi di Jan Svankmajer o soggetti precursori dell’animazione dei Monty Python.
“Per me il mistero è come una calamita. Ovunque ci sia qualcosa di ignoto si sviluppa una grande attrazione. Se ci si trovasse in una stanza, con la porta aperta e con le scale che scendono, e si spegnesse di colpo la luce, si avrebbe la forte sensazione di precipitarsi giù da quelle scale. Se si ha una visione parziale l’impatto è più forte che non di fronte a un quadro completo della situazione. L’intero può avere una logica, ma il frammento, tolto dal suo contesto, assume un eccezionale valore di astrazione. Può diventare un’ossessione”. Eccolo il groviglio/maelstrom perturbante all’origine di una carriera lunghissima e misteriosa, fantastica e surreale, come quella di David Lynch, tratto dal bel libro Lynch secondo Lynch di Chris Rodley (Baldini&Castoldi). 70 le candeline che il regista di Missoula (Montana) spegne il 20 gennaio 2016 in attesa di concludere le riprese della nuova stagione di Twin Peaks.
Il lavoro tra i set del deserto Mojave, Los Angeles e Seattle sembra procedere spedito tanto che Showtime ha dichiarato di prevedere la messa in onda della rinnovata versione del cult tv per eccellenza nei primi mesi del 2017. Ancora qualche settimana d’attesa per i fan di Laura Palmer che ritroveranno alcune vecchie conoscenze del mondo lynchiano (Laura Dern, Balthazar Getty) e nuove star come Amanda Seyfried, Robert Forster e James Belushi. Intanto così ad occhio, meditazione trascendentale o meno, festeggiare il traguardo dei 70 anni in piena attività sul set di quello che probabilmente è un marchio di fabbrica riconosciuto nell’intero globo, grazie anche all’inquietante tema musicale di Angelo Badalementi che inizia a partire nella propria mente appena si nomina Twin Peaks, deve essere un momento speciale anche per uno schivo e riservato come Lynch.
Mai un Oscar o un Golden Globe per lui in 49 anni di carriera e 10 lungometraggi per il cinema all’attivo. L’esordio ufficiale è nel 1966 con il cortometraggio Six Men getting sick: quattro minuti in cui quattro teste d’uomo disegnate vomitano su un pannello sotto di loro a passo uno, quasi fossero pupazzi di Jan Svankmajer o soggetti precursori dell’animazione dei Monty Python. Poi la prima regia nel 1977: Eraserhead. Bianco e nero, un bambino mutante, un’atmosfera ansiogena e surreale. Nonostante la difficoltà realizzativa (ci vorranno parecchi anni per concluderlo), l’esordio di Lynch dopo un inizio disastroso (25 spettatori la prima sera) diventa un ‘caso’ di tenitura prolungata in alcune sale di New York, San Francisco e Los Angeles tanto da rimanere in cartellone per tre anni e raggiungere i sette milioni di dollari d’incasso. “Certe cose mi sembrano meravigliose senza che ne conosca il motivo. Altre significano moltissimo per me, ed è difficile spiegare il perché. Io ho “sentito” Eraserhead, non l’ho pensato. È stato un processo molto semplice, che partiva dalla mia interiorità e andava verso lo schermo”. Un occhio a Herzog, uno paradossalmente a Tati, salde radici nell’indipendenza creativa ed espressiva di Maya Deren e Stan Brakhage, Lynch diventa presto l’autore americano che filma (comunque) all’europea. The Elephant Man (1980) vede la luce grazie alla perseveranza dal comico Mel Brooks, e alla moglie Anne Bancroft, folgorato dall’esordio lynchiano, e vicinissimo alla Paramount che nel 1980 lo produsse. “L’elemento che mi avvicinò all’idea di fare il film fu sia John Merrick, l’uomo elefante, e poi la Rivoluzione Industriale. Hai presente le immagini di esplosioni? Mi hanno sempre ricordato i papillomi, le escrescenze sul corpo di Merrick: somigliavano a delle lente esplosioni che partivano dalle ossa”.
Del fiasco di Dune (1984), prodotto da Dino De Laurentiis, si è parlato in ogni dove. Basti ricordare che Lynch segue la schiera dei grandi della New Hollywood (Coppola, Cimino, ecc..) che portano all’ennesima potenza il sogno del kolossal firmato, in cui la magniloquenza di set e progetto sono filtrati dalla lente personale ed allucinatoria del suo ideatore primario. Di lì a due anni è il momento di un “nuovo punto d’avvio”, personale e poetico: Velluto Blu (1986) e la consacrazione con Cuore Selvaggio (1990) – Palma d’oro a Cannes. Sul set del film che inizia nel bucolico giardinetto di una case di provincia e finisce nelle scoperte del giovane Jeffrey (Kyle MacLachlan) e nell’incubo di Dorothy (Isabella Rossellini) nasce anche il sodalizio supremo con Badalamenti. La Rossellini non riesce a cantare Blue Velvet, il producer Fred Caruso propone a Lynch un certo Angelo, molto bravo a cavare la gente dagli impicci per quel che riguarda musica e suono e in due ore ecco la cura Badalamenti fa avere a David il nastro registrato che diventerà il cantato nella scena cult del night. Tra il ’90 e il ’92 ecco il blocco Twin Peaks per la tv e Fuoco cammina con me al cinema. Ed è qui che le fortune di Lynch cominciano a tentennare dal lato commerciale, mentre dal lato della devozione dei fan il lynchianesimo diventa una vera e propria religione dedita alla (sua) pregiudiziale venerazione. Strade perdute (1996), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006) – Una storia vera (1999) potete ribaltarlo come volete, guardarlo alla rovescia, reinterpretarlo, decostruirlo, ma è un film immediato e comprensibile, lynchiano nella scena del cervo investito e stop – sono astrattismo narrativo purissimo, perdita di controllo dal pianeta terra per una missione visiva spaziale a cui affidarsi senza mezze misure, rischiando di non comprendere il senso generale, perdendosi in eterni ed incomprensibili particolari.
“Oltre i confini del senso, prive di pareti, stilisticamente libere e raffazzonate come imbarazzanti pastrocchi infantili, le opere di Lynch sono ancora oggi l’anticamera di un mondo nuovo che aggiorna l’immaginario, declassa il racconto, promuove il concetto”, scrive Stefano Brenna nel bel libro A letto con David Lynch (Booktime). “Non capire Lynch è dunque una cosa normale – continua Brenna – l’equivalente luccicante di un’avanguardia in bianco e nero, dove gli schermi si riempiono di linee e quadrati, compongono sinfonie, muovono ombre inquietanti, agitano polveroni metafisici senza dire niente di concreto”. In 49 anni di carriera si sprecano le relazioni amorose, i cortometraggi, i film non fatti (Frances), l’amore per l’architettura. Lynch è personaggio chiave per capire il cinema postmoderno, quello che s’impone come cinema art house indipendente, visionario e personalistico. Uno così in mezzo alla pastoia finto democratica dell’oggi non nascerà mai più (sempre se non con un testone deformato…).