di Annalisa Rosiello * e Monica Serra **
A distanza ormai di quasi un anno dall’emanazione della norma sul contratto definito “a tutele crescenti” (qui il testo), assistiamo allo sconsiderato abbattimento dei diritti, nonostante sia stato più volte detto che non esista alcuna correlazione tra diminuzione delle tutele e crescita dell’occupazione.
Del resto un’azienda assume se ha del lavoro da far svolgere, diversamente perché dovrebbe assumere? Perché non c’è più l’articolo 18? Ricordiamo che persino Giorgio Squinzi aveva inizialmente affermato che “la licenziabilità dei dipendenti è l’ultimo dei nostri problemi”. E in effetti l’occupazione cresce se si incentivano le aziende (in legge di stabilità è stato confermato, seppure in misura ridotta, lo sgravio contributivo), se si snellisce la burocrazia, se si riducono le imposte e non di certo se e perché si tolgono tutele.
Ma se non esiste correlazione tra abbattimento delle tutele e crescita dell’occupazione, allora qual è il reale (e ormai palese ai più) obiettivo della norma? Il reale obiettivo è quello di “normalizzare” i rapporti di lavoro, di rendere i lavoratori più ricattabili, più precari e meno pagati per dare pedissequo seguito alle indicazioni della cosiddetta Troika (Fmi, Bce e Commissione europea) e per favorire, dunque, gli interessi della finanza internazionale e delle multinazionali.
E in effetti a partire dall’ultimo anno abbiamo cominciato ad assistere all’aumento di licenziamenti adottati con i pretesti più banali anche di quei lavoratori sottoposti al vecchio regime di tutele (ovvero quelli assunti prima del 7 marzo). Può essere un caso? Secondo noi no. Spieghiamo il perché.
Il licenziamento disciplinare, per giusta causa (in tronco) o per giustificato motivo soggettivo (con preavviso), è la sanzione più grave che il datore di lavoro possa infliggere al lavoratore “colpevole” di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di una mancanza tale da non consentire la continuazione del rapporto.
Il licenziamento disciplinare, se illegittimo, come sappiamo trova garanzie diverse a seconda della data di assunzione, precedente o successiva al 7 marzo: mentre nelle piccole aziende (meno di 15 dipendenti) il lavoratore non ha mai potuto aspirare alla reintegrazione, salvi i casi di licenziamento discriminatorio o illecito, nelle grosse realtà il lavoratore aveva sempre diritto alla reintegrazione nel caso di sproporzione del licenziamento o di insussistenza del fatto; è per i nuovi assunti, infatti, che il governo ha inteso escludere sempre la reintegrazione salvo il caso in cui risulti “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale” (art. 3 d.lgs 23/2015).
Le novità del Jobs act penalizzano quindi e senz’altro i nuovi assunti, che saranno precari a tempo indeterminato con pesanti ricadute su progetti e futuro (matrimonio, figli, mutuo, finanziamenti, ecc.); tuttavia il cambio normativo sta penalizzando anche i “vecchi” assunti, nel mirino perché più costosi e più tutelati e, per questo, sempre più spesso sottoposti a licenziamenti da giustizia sommaria. In particolare osserviamo che le aziende, sull’onda di un clima complessivo radicalmente mutato (a scapito dei lavoratori, naturalmente) sono indotte a sostituire il “vecchio” personale con i nuovi precari a tempo indeterminato.
Il personale “anziano” è infatti più propenso a esercitare e a sollecitare il rispetto dei vari diritti garantiti dall’ordinamento e conquistati negli anni anche grazie alle lotte sindacali (permessi ai vari titoli, ferie, orario, turni, ecc.); è più propenso ad esprimere il proprio pensiero politico/sindacale, a sollevare richieste e rivendicazioni, ecc..
Ed è su queste persone che le aziende trovano, in maniera sempre più frequente, un modo più o meno sbrigativo di intervenire con licenziamenti per motivi grossolani, nella convinzione (spesso fondata) che intanto eliminano il “problema”, salvo poi pensare davanti al giudice, se del caso, ad una transazione (normalmente di tipo economico).
Si pensi ai casi di licenziamento dei lavoratori che accudiscono disabili con il pretesto che abbiano abusato del diritto, o ai casi di lavoratori licenziati perché hanno manifestato il proprio pensiero politico o sindacale (magari con incisività ma senza violenza). Questi casi sono all’ordine del giorno ultimamente! Così come frequentissimi sono i licenziamenti per asseriti (quanto improbabili) motivi economici.
Così le persone che subiscono questi licenziamenti, dopo l’eventuale causa e l’eventuale transazione economica (chi vuole rientrare in un’azienda che l’ha licenziato ingiustamente? in pochi!), si ritrovano nell’attuale mercato, con la prospettiva di future assunzioni con le “tutele crescenti”. E le fila dei precari a tempo indeterminato continuano ad ingrossarsi.
Anche quando non si riesce a trovare neppure un motivo banale per il licenziamento, il lavoratore può essere sempre ammorbidito con un periodo di demansionamento o di mobbing…
Checco Zalone docet!
* La co-autrice è una delle curatrici di questo blog, qui la sua biografia
** Pavese di nascita e milanese di adozione, attualmente frequento il quinto anno di Giurisprudenza presso l’Università Commerciale L. Bocconi. Durante gli studi mi sono appassionata al mondo del diritto del lavoro e del diritto sindacale, che spero diventeranno la mia professione: “da grande” infatti voglio diventare avvocato giuslavorista.