La poesia urbana, il quotidiano frammentario, le pillole lanciate nello stagno e frullate. L’amalgama celestiniana raggiunge in “Laika” un passaggio superiore, più alto, verticale, e allo stesso tempo più intimo, nel profondo. Sale e scava. Missile e trivella. Ci porta lontano e ci dà una vanga per zappare sotto i nostri piedi a cercare la tomba più che il petrolio. Di prezioso la vita ha la vita stessa. Solo questo. Può essere l’infinito, può essere condanna o salvezza. In questo passaggio di ascese e discese, di vette e abissi, il magma dell’uomo nel suo habitat di cemento e infelicità, palazzoni e giardini brulli, di finestre tutte uguali e morti in fondo al mare, di lavoro che non c’è e di benessere urlato dalla tv perennemente accesa su qualcosa di lontano e sorridente e felice e irraggiungibile. Una famiglia strampalata, e allargata, che dalle Sacre Scritture, arriva, finalmente, nuovamente, sulla Terra. Una famiglia formata da una prostituta, un cieco, un’anziana con l’alzhaimer, un africano clochard. La Storia è la summa delle storie minime di noi altri, molte formiche, poche cicale.

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Ascanio Celestini non usa giri di parole, non usa metafore, il politicamente corretto non sa neanche che cosa sia. Pane al pane e vino al vino. L’anziano si chiama vecchio, il nero è negro, la prostituta diventa puttana. Perché la vita non è pulita, la vita non è a colori ma in bianco e nero, la vita è fredda e non patinata, la vita è un marciapiede appuntito dove ti fai male nell’inciampo degli anni. Il discorso di “Laika” (che è tratta dalla pellicola “Viva la sposa”, sempre di Celestini) sembra esplodere, per poi ritornare, ma non segue i canoni del passato di Celestini; se prima era la circolarità, il vortice a fare larghi giri dialettici per poi rientrare in carreggiata, facendo grandi paraboliche tortuose, invitanti come carezze sulle quali lasciarsi andare, qui è un Big Bang di crateri e satelliti, di comete e meteore che si frantumano, collassano, s’inabissano nel buio per poi rientrare a pieno regime nella fluttuazione del racconto di un’oralità con pochi punti di riferimento, voci in soggettiva e cambi di prospettiva dove la poesia delle piccole cose è carta carbone con una rabbia che non ha più valvole di sfogo in un intorno di terra bruciata di possibilità, arida secchezza di sale gettato a manciate.

Come se fosse il giorno del Giudizio Universale, “sta slittando il cielo”, e gli uomini non se ne fossero accorti, abituati a quel niente, ogni giorno peggiore del giorno precedente. Da una piccola finestrella di queste celle d’alveare, sotto un parcheggio sghembo, vuoto, dove si perdono le linee che un tempo erano bianche. Un giorno qualsiasi dove i nodi vengono al pettine e chiedono soddisfazione e chiarificazione: luce. Di lindo nemmeno le coscienze. Gesù, bukowskiano ubriaco di sambuca scadente, e Pietro, silente, ma potrebbero benissimo essere due disadattati qualunque (“Il barbone è un po’ santo. Non fa del bene, ma almeno non fa del male, quindi un po’ santo lo è”) senza alcuna possibilità di migliorare il loro intorno. Si possono soltanto salvare, tirare a domani, mettere una pezza alle crepe di questo Tutto che scivola, s’incrina, scricchiola, senza poterlo puntellare, soltanto attendere il crash. Siamo gli stupidi che continuano a guardare il dito.

Nel minipimer centrifugante del narratore romano di Casal Morena entrano Steve Jobs e Stephen Hawking, il tfr azzerato da multinazionali e Di Bartolomei, capitano triste della Roma anni ’80. Una decostruzione, un racconto in distruzione alla Rezza/Mastrella, un flusso di coscienza joyciano tra il meditativo e lo squallore, alla ricerca di un senso più alto del vivere che non sia l’arrabattarsi, il consumarsi dentro contenitori di routine imposte dal Sistema, al quale non ci sappiamo sottrarre né difendere. Per cercare la nostra felicità ogni giorno inventiamo e perlustriamo e ci imbattiamo e gustiamo tutto l’amaro della nostra infelicità, fino a farlo diventare modello di vita da perseguire, ogni giorno in modo più automatico, senza scampo, sottomissione volontaria senza possibilità d’inversione di marcia.

Sta tutto nel gioco di parole tra “Laika”, la cagnolina spedita dai russi nell’orbita, “la creatura che è stata più vicina a Dio”, e l’aggettivo “laica”, non legato ad alcuna confessione religiosa, tra l’Altissimo, al quale è stata tolta l’aurea di perfetto, “Dio è entrato in casa mia come una pallonata” e questo mondo spento, storto, labile, opaco al quale ci sforziamo di appiccicare un velo di santità e pulizia, di purezza e sacralità, indorando una pillola amara come la cicuta. Un posto dove “la morale ce l’hanno le favole, non le persone”. Come una poesia di Wislawa Szymborska, preghiera atea e bestemmia, nera e luminosa, quando hai afferrato il senso pratico sfugge nella polvere di stelle, quando pensi alla metafora si scioglie nel dramma concreto. Niente di rassicurante, come la calma apparente degli autoritratti di Ligabue, come l’armonia instabile dei dipinti di Bosch. Perché Celestini sta tra cielo e terra, come pochi sa vedere oltre le nuvole dell’ovvio e dell’oggi, come pochi sa toccare la materia rancida povera del quotidiano ed immergerla nell’eccezionalità. O nella santità.

Visto al Teatro Puccini, Firenze, il 15 gennaio 2016.

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