“La prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club“. Peccato, però, che non siamo in un romanzo di Chuck Palahniuk né in un film con Brad Pitt, ma su un campo di calcio, in Italia, nel 2016. E Maurizio Sarri non allena il Borgorosso Football Club ma il Napoli, leader della classifica di serie A, squadra con milioni di tifosi e dalla storia gloriosa. Ecco perché il “frocio” urlato a Roberto Mancini non può e non deve venire liquidato con un sorrisetto e una alzata di spalle. E ancora più grave è l’argomentazione di chi, per difendere l’allenatore del Napoli, comincia con la solita storiella del gioco maschio, del campo che esaspera gli animi, dell’adrenalina che ti porta a dire cose che non diresti in una situazione “normale”.
No, non è così. Perché il campo di calcio, a maggior ragione se si incontrano due top club e qualche milione di persone sta guardando la partita in diretta tv, non è un non-luogo dove tutto è sospeso, dalla semplice buona educazione al rispetto per gli altri. Se così fosse, dovremmo smettere da subito di criticare duramente (e giustamente) le orde di ultras che settimana dopo settimana si producono in vergognose esibizioni di razzismo, antisemitismo e a volte addirittura di violenza fisica. Dobbiamo riflettere, una volta per tutte, su cosa rappresenta il calcio in Italia. Perché all’estero il problema è bello che risolto: fosse successo in Premier League quello che è successo ieri sera, Maurizio Sarri avrebbe già raccolto le sue cose e sarebbe stato mandato a casa a pedate. Non per buonismo o politicamente corretto, nossignore. Semplicemente perché le parole sono importanti, soprattutto se a pronunciarle è l’allenatore della squadra prima in classifica. Sono solo parole, diranno i più superficiali.
Nemmeno per idea, risponderà chi ha un minimo di contezza di ciò che accade nel mondo e purtroppo anche nel nostro paese. Andate a dire che sono solo parole al teenager gay che viene quotidianamente tormentato dai compagni di classe o non è accettato e compreso dal padre, e che al culmine di una frustrazione umiliante non trova altra soluzione se non un salto nel vuoto da quinto piano! Di omofobia si muore, caro Sarri. O, nel migliore dei casi, di omofobia si vive di merda.
Anche in Italia, sissignore. Nella stessa Italia che tra pochi giorni ospiterà a Roma l’ennesima manifestazione contro il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Nella stessa Italia che è fanalino di coda in Europa sullo stesso tema e la cui classe politica in queste ore sta litigando e discutendo per partorire l’ennesimo pastrocchio, l’ennesimo compromesso al ribasso sulla pelle di milioni di cittadini di serie B. Sarri non ha giustificazioni, non ha scuse, non ha alibi. Fossimo al suo posto, prenderemmo atto di un errore clamoroso e ne trarremmo le dovute conseguenze. Fossimo Roberto Mancini, invece, oggi saremmo molto orgogliosi di noi stessi.
L’allenatore dell’Inter, denunciando in diretta tv le offese omofobe ricevute, ha infranto uno dei tabù più duri a morire, quello di un calcio machista e greve, da rutto libero e cori contro una minoranza qualsiasi. Mancini ha allenato in Inghilterra e sa meglio di chiunque altro che su queste cose non può esserci margine di tolleranza. Non per buonismo, ripetiamo, ma per il rispetto dovuto a chi giorno dopo giorno deve scalare montagne impervie di pregiudizi e odio, di violenza verbale e fisica, di umiliazioni e frustrazioni.
Mancini ha infranto la prima regola: ha parlato del Fight Club. E probabilmente nell’ambiente calcistico in queste ore starà raccogliendo soprattutto critiche e sguardi colmi di biasimo.
La parte sana del paese, se c’è davvero e se ha una consistenza anche solo lievemente maggioritaria, dovrebbe ringraziarlo dal profondo del cuore. Perché proprio nei giorni in cui si discute in Parlamento delle briciole di dignità da concedere a milioni di paria, lui ha deciso di non far passare sotto traccia l’ennesimo sfregio del calcio al vivere civile.
Mancini-Sarri, io sto con il tecnico del Napoli: “Ha sbagliato. Ma l’omofobia è un’altra cosa e i perbenisti non aspettavano altro” (di Lorenzo Vendemiale)