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Vitalba Azzollini

La diffusione della medicina difensiva grava sui costi del sistema sanitario nazionale. E un disegno di legge cerca una soluzione scoraggiando le azioni legali di pazienti danneggiati. Sarebbe meglio seguire l’esempio di altri paesi dove, in talune ipotesi codificate, è previsto un indennizzo.

Soluzione discutibile per un fenomeno diffuso

La diffusione e la pervasività della cosiddetta medicina difensiva grava in misura rilevante sul sistema sanitario nazionale. Nel 2013, la Relazione della commissione d’inchiesta sugli errori sanitari ha quantificato in 10 miliardi di euro il valore di “prestazioni diagnostiche e terapeutiche non strettamente necessarie alla salute del paziente”, prescritte “per evitare addebiti di responsabilità nell’eventualità dell’instaurarsi di un contenzioso”. Ai costi diretti, che tra l’altro sottraggono risorse a impieghi più efficaci, si aggiungono costi indiretti, come i premi assicurativi pagati da professionisti e strutture sanitarie, lievitati a seguito dell’aumento delle relative cause (Ocse); la burocratizzazione medica, volta alla produzione di “materiale probatorio” potenzialmente utile in sede giudiziaria; i danni (cosiddetti iatrogeni) causati ai pazienti a seguito di trattamenti “inutili”. Si tratta, peraltro, di costi destinati ad aumentare: la medicina difensiva è ritenuta “inevitabile” dal 93 per cento dei medici, a causa di pressioni indotte da fattori diversi.

Per arginare il fenomeno e ottenere i risparmi di spesa conseguenti, la legge n. 125/2015 ha sancito che un decreto del ministro della Salute preveda “le condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva” per una serie di prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale coperte dal Ssn, disponendo penalizzazioni per i medici che non le rispettino. Tuttavia, considerato che le sanzioni potrebbero non dissuadere dal ricorso a interventi sanitari di tipo difensivo e che scelte clinico-diagnostiche standardizzate, quindi talora riduttive, sono potenzialmente idonee ad aumentare il contenzioso, un disegno di legge introduce meccanismi volti a scoraggiare azioni legali di parte di pazienti che abbiano subito un danno. Il medico risponderà per responsabilità extracontrattuale, anziché contrattuale come finora: di conseguenza, l’onere della prova sarà a carico del danneggiato e risulterà dimezzato il periodo per la richiesta di risarcimento (5 anni). Inoltre, verrà esclusa la colpa grave del professionista che abbia agito secondo linee guida e buone pratiche.

La soluzione complessivamente elaborata, tesa a “blindare” il Ssn, suscita perplessità: non solo aggrava le condizioni di esercizio dell’azione giurisdizionale per chi già patisca una situazione di malattia, ma potrebbe ottenere esiti opposti a quelli auspicati. Infatti, la stessa commissione di inchiesta aveva rilevato che “vincolare l’azione del medico alle linee-guida e alle buone pratiche” può, da un lato, disincentivare l’adozione delle scelte terapeutiche “più adeguate al trattamento del singolo individuo”; dall’altro, sortire “il paradossale effetto di incrementare il fenomeno della medicina difensiva: al fine di sollevarsi dalla rivendicazione di una possibile responsabilità, l’operatore tenderà a seguire pedissequamente protocolli e linee-guida, prescrivendo esami diagnostici o ricoveri quando siano astrattamente previsti (…) e non quando siano realmente necessari”. Inoltre, l’obbligo di assicurazione prescritto dal disegno di legge – pur “virtuoso in linea di principio – in assenza di misure concomitanti, è atto ad accrescere la propensione al contenzioso in quanto rassicura “sulla controparte certa cui chiedere il risarcimento”. Peraltro, l’obbligo rischia di risultare inefficace, dati gli alti costi dei premi assicurativi e l’eventuale insolvenza della struttura sanitaria nei casi di autoassicurazione.

L’alternativa: l’indennizzo

Poiché gli “incentivi forniti da sistemi basati sulla responsabilità medica per colpa professionale” alimentano la medicina difensiva (Ocse), il legislatore avrebbe potuto seguire l’esempio di alcuni paesi  che l’hanno limitata mediante la riduzione di tali “incentivi”: per specifiche tipologie di danni, hanno reso non necessario l’accertamento giudiziale della responsabilità.
Si tratta di un sistema “no fault” – analogo a quello italiano per gli infortuni sul lavoro, nonché per i danni da vaccinazioni obbligatorie – che si affianca a quello basato sulla responsabilità civile. Un fondo si fa carico del pregiudizio sofferto dal paziente in alcune ipotesi codificate, corrispondendo un indennizzo – dunque un ristoro parziale – calcolato secondo criteri prefissati in relazione al danno subito (si veda ad esempio il Référentiel indicatif d’indemnisation previsto in Francia dall’Oniam – Office national d’indemnisation des accidents médicaux, des affections iatrogènes et des infections nosocomiales). In alternativa, il paziente può ricorrere in giudizio per ottenere il pieno risarcimento.

I criteri per l’accesso all’indennizzo e per la determinazione del suo ammontare sono definiti in modo da consentire la sostenibilità economica del sistema; il fondo viene di norma alimentato dalle strutture mediche e altri attori sanitari, con il concorso di mezzi pubblici. Questa soluzione determina una generale riduzione di costi, alleggerendo il sistema giudiziario, diminuendo l’ammontare dei risarcimenti e, di conseguenza, dei premi assicurativi a carico dei medici. Inoltre, reca vantaggi ai danneggiati, che in taluni casi possono essere ristorati senza lunghe, incerte e onerose azioni legali, e al contempo ai professionisti, meno pressati dal rischio di contenzioso e, quindi, meno sollecitati a interventi di tipo difensivo. Giova insomma all’intero sistema sanitario.
Infine, la promozione di un clima di fiducia nazionale passa anche attraverso una maggiore serenità del rapporto tra medici e pazienti. Provvedimenti normativi che aggravino gli uni o gli altri non agevolano questo risultato.

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