Da settimane si discute dell’imminente approvazione del ddl Cirinnà (relatore e non ideatore) inerente la “Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili” facendone una guerra santa, tra (si favoleggia) due fazioni quali i cattolici conservatori e liberali, tra omofobi e non omofobi. Divisioni che segnano lo scenario politico e della società civile. In realtà la questione è assai più semplice ma fondata su principi che vengono volutamente trascurati.
Il testo base del ddl d’iniziativa dei senatori Manconi e Corsini, comunicato alla presidenza il 15 marzo 2013, premette che “alla estensione dei diritti riconosciuti ai contraenti le unioni civili, corrisponde una parallela regolamentazione dei loro doveri e oneri. Ciò potrà garantire la necessaria tutela non soltanto ai figli, ma anche al contraente economicamente più debole nel caso di cessazione dell’unione civile, l’affidamento dei terzi in ordine alla situazione patrimoniale della coppia, la trasparenza dello stato giuridico delle parti” e sancisce all’art. 14 che “Le parti dell’unione civile possono chiedere l’adozione o l’affidamento di minori ai sensi delle leggi vigenti, a parità di condizioni con le coppie di coniugi”.
Che in Italia le unioni civili delle persone che stabilmente intendano riconoscere tale status giuridico, anche tra soggetti non eterosessuali, debbano meritare adeguato riconoscimento è noto. Ben diverso è il voler infilare in tale status ogni equiparazione con le coppie formate (naturalmente) tra un uomo e una donna, chiamati dal creato (anche) a generare figli, ossia a donare la vita. Bisogna intendersi su cosa sia la “necessaria tutela” ai figli.
Non occorre difatti richiamare manuali di psicologia dell’età evolutiva per scoprire che lo sviluppo armonioso ed equilibrato di un soggetto da infante ad adulto necessiti della parte maschile (ergo di un uomo) e della parte femminile (ergo di una donna) nel suo percorso da crisalide a farfalla. Né richiamare la seria letteratura scientifica che ha evidenziato le conseguenze negative sulla personalità, ove difetti. O la pediatria, l’antropologia e la sociologia. Certo, è pure evidente come un figlio minore necessiti in tale percorso che uomo e donna si relazionino in modo equilibrato.
Al pari non si mette in discussione come due soggetti non etero ma uniti stabilmente possano comportarsi da buoni genitori. Ma tutto ciò può dirsi sufficiente per lo sviluppo armonioso di un bambino?
La Cei ha più volte negato l’esistenza di un “diritto al figlio” o di un preteso “diritto alla genitorialità”, col rischio di “confondere o, peggio, identificare il piano dei desideri con il piano dei diritti, sottacendo che il figlio è una persona da accogliere e non l’oggetto di una pretesa resa possibile dal progresso scientifico”, sino ad assumere “come parametro di valore un preteso diritto individuale, sganciato da qualsiasi visione relazionale; in questo modo si trascura, tra l’altro il diritto del figlio a conoscere la propria origine biologica”. La Cei ritiene che “si snatura il concetto e l’esperienza di paternità e di maternità, che sono elementi preziosi per l’unità profonda ed inviolabile della coppia”.
Non mi pare neppure troppo equivoca la nota sentenza della Corte Costituzionale (n. 162/2014) sulla cosiddetta eterologa ove sancisce che “la scelta di tale coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che (…) è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare. Conseguentemente, le limitazioni di tale libertà, ed in particolare un divieto assoluto imposto al suo esercizio, devono essere ragionevolmente e congruamente giustificate dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango (sentenza n. 332 del 2000). La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali”. Ed ancora: “Va anche osservato che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli (…) Nondimeno, il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione. La considerazione che quest’ultimo mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori (…) rende, comunque, evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa. La libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti”.
L’accesa discussione dunque andrebbe dunque centrata sul minore. Il minore ha un diritto fondamentale di crescere con un padre ed una madre? Sì, perché questo ne garantirà lo sviluppo. Secondo Bowlby, a partire dal concepimento, quella dello sviluppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al contributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio o una femmina alla vita legandoli per sempre in modo speciale alla propria madre genetica. La nostra società tende oramai invece a negare tale cornice di riferimento dello sviluppo infantile, in favore di un modello dello sviluppo al cui centro è il “bambino di cristallo” e la conseguente necessità di proteggerlo amorevolmente. Ma i i bambini cristallo generano una società di cristallo, destinata a frantumarsi.