Ci sono volte nelle quali viene da chiedersi che senso abbia continuare a spendere milioni e milioni di euro per finanziare il funzionamento delle Autorità amministrative indipendenti se poi lobby e politica ne disattendono indicazioni e suggerimenti lasciando che l’interesse di pochi prevalga su quello di tanti.
La vicenda della “nuova disciplina delle strutture ricettive extralberghiere” varata dalla regione Lazio nel bel mezzo della scorsa estate è una di queste. La storia, ridotta ai termini essenziali, è questa.
Proprio mentre a Roma fervevano i preparativi per l’apertura dell’Anno Santo ed era, quindi, facile prevedere un’impennata del turismo nella capitale e nei dintorni, la regione ha approvato un regolamento contenente tutta una serie di penetranti limitazioni per l’esercizio delle attività ricettive extra-alberghiere, ovvero quelle svolte dai gestori di ostelli, bed & breakfast e case vacanza in una dimensione, generalmente, non imprenditoriale.
Le nuove norme prevedono da una parte la facoltà dei comuni del Lazio – Roma in testa – di imporre a tali strutture ricettive lunghi periodi di chiusura forzata e, dall’altra, stringenti standard dimensionali e qualitativi per tali strutture.
Letto il regolamento in questione, ad ottobre, l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato ha preso carta e penna ed ha indirizzato alla Regione Lazio un’articolata segnalazione nella quale ha puntualmente messo in fila le ragioni per le quali, a suo parere, la nuova disciplina della materia avrebbe prodotto effetti anticoncorrenziali e avrebbe, pertanto, dovuto essere considerata illegittima.
“L’Autorità ritiene che le previsioni richiamate presentino diversi profili di criticità, legati all’introduzione o all’inasprimento di requisiti che possono tradursi in una ingiustificata limitazione dell’accesso e dell’esercizio dell’attività ricettiva extralberghiera, in quanto idonea a limitare l’operatività delle strutture e a subordinare l’accesso al mercato al rispetto di vincoli di natura dimensionale.”.
Fuor di giuridichese l’indicazione dell’Authority era chiara e inequivocabile: le nuove norme rischiavano di limitare in modo ingiustificato la concorrenza nel settore turistico in danno dei gestori delle attività extra-alberghiere e, soprattutto, dei consumatori e a tutto vantaggio delle strutture alberghiere tradizionali.
E, infatti, la segnalazione inviata dall’Antitrust della concorrenza alla Regione Lazio, si chiudeva così: “In conclusione, l’Autorità ritiene che, per le ragioni sopra esposte, gli artt. 3, 6, comma 2, 7, commi 2, lettera a), 3 e 4, 9, commi 1 e 3, lettera a), e 18 del Regolamento in esame e gli atti presupposti e conseguenti, integrano specifiche violazioni dei principi concorrenziali nella misura in cui limitano l’accesso all’attività extralberghiera e ne rendono più difficile l’esercizio, in assenza di esigenze di interesse generale. Tali disposizioni si pongono in contrasto con gli artt. 10 e 11 del D.Lgs. n. 59/2010 e con i successivi interventi di liberalizzazione sopra richiamati (art. 3, comma 7, del D.L. n. 138/2011, art. 34 del D.L. n. 201/2011 e art. 1, commi 2 e 4, del D.L. n. 1/2012).”.
In un Paese normale, un’amministrazione che riceve da un’Autorità indipendente di settore una segnalazione tanto puntuale e motivata nella quale le si spiega che un provvedimento appena varato viola una sequenza interminabile di norme di legge e minaccia di restringere la concorrenza in un settore nevralgico per l’intero Paese come quello turistico – per di più a ridosso di un evento di portata straordinaria come il Giubileo – dovrebbe prenderne atto, correggere il proprio provvedimento e ringraziare sentitamente l’Autorithy per averle aperto gli occhi.
In un Paese normale sì, in Italia no.
E, infatti, la Regione Lazio, ricevuta la comunicazione dell’Antitrust, ha preso, a sua volta, carta e penna e ha informato quest’ultima di ritenere legittimo il proprio provvedimento “principalmente perché conforme alla disciplina presente in altre realtà regionali e perché le strutture gestite in forma non imprenditoriale non costituirebbero imprese turistiche e, conseguentemente, neppure soggetti di mercato sottoposti ai principi concorrenziali”.
Come dire che i suggerimenti dell’Authority della concorrenza non avrebbero meritato di essere accolti perché – giusto o sbagliato che sia – così fan tutti, anche in altre regioni italiane, e perché, nel 2016, in piena era della sharing economy, mentre Airbnb ed i suoi tanti emuli garantiscono sistemazioni turistiche a condizioni vantaggiose a milioni e milioni di viaggiatori in tutto il mondo, le regole della concorrenza e del libero mercato non dovrebbero considerarsi applicabili anche a chi, in una dimensione non imprenditoriale, soddisfa le stesse esigenze di consumo di chi, viceversa, lo fa in una dimensione imprenditoriale.
Ostelli, bed & breakfast, case vacanze ecc., insomma, per la Regione Lazio, sarebbero figli di un Dio minore e, come tali, non meritevoli di alcuna garanzia in termini di accesso al mercato e libertà di iniziativa economica, valori che pure, la Costituzione riconosce ad ogni cittadino.
E per fortuna che preso atto della risposta della Regione Lazio, l’Antitrust ha deciso – come si legge nel bollettino ufficiale dell’Authority del 28 dicembre – di impugnare il regolamento della regione davanti al Tar del Lazio.
Un finale all’agro-dolce però, giacché è difficile considerare una vittoria la circostanza che il confronto tra un’Autorità indipendente ed un’Amministrazione dello Stato debba finire in tribunale e che debbano essere i giudici a decidere se la regione Lazio ha davvero violato le regole della concorrenza o se, proprio l’Authority della concorrenza, ha preso una cantonata in materia di concorrenza.