L'OLOCAUSTO 71 ANNI DOPO - Intervista a Gasiani, tra i circa 24mila deportati per ragioni politiche: "Ci tolsero la nostra umanità, trasformandoci in cose, animali. La notte sognavi casa, i genitori, il profumo del pane caldo. E quando sono tornato e raccontavo agli amici, mi rispondevano: non è possibile. Per questo ho taciuto per decine di anni. Fino alla Vita è bella di Benigni"
Appesa al muro della sua abitazione di Bologna, a Battindarno, una foto lo ritrae con Roberto Benigni. Armando Gasiani, classe 1927, nome di battaglia Bolero, fu tra i 23.826 italiani deportati per ragioni politiche nei campi di concentramento. E quando tornò da Mauthausen, con 34 chili e i polmoni gravemente malati, dell’orrore che aveva vissuto, visto e subito, non riusciva a parlare. Non poteva, perché nessuno riusciva a credere alle sue parole, neanche a casa. Perciò rimase in silenzio, anno dopo anno. Per cinquant’anni. Finché non arrivò La vita è bella, Benigni appunto. “Quel film, per me cambiò tutto – racconta Gasiani a ilfattoquotidiano.it – Mi aiutò a ritrovare la voce”. Oggi Gasiani viaggia per l’Italia per raccontare agli studenti della prigionia nei lager. “Devono sapere che la libertà di cui godono ci è costata tante vite. E tanti sacrifici”.
Armando, quando la catturarono?
Il 5 dicembre del 1944, avevo 17 anni. Io e la mia famiglia vivevamo ad Anzola dell’Emilia, eravamo agricoltori. Ma visto ciò che stava succedendo, al di qua e al di là delle Alpi, io e mio fratello Serafino decidemmo di unirci alla Resistenza. Non andammo mai a combattere, ma per i partigiani eravamo parte della cosiddetta “rete di supporto”. Quindi, in pratica, offrivamo cibo, assistenza, li aiutavamo a rimanere nascosti. Fu per quello che ci presero.
Le SS sapevano che ad Anzola c’era una base partigiana?
Sì, perché a guidarli fu un traditore, un ex partigiano che si unì alle SS. Arrivarono all’improvviso, e non ci fu tempo di scappare. Ci portarono in una scuola, eravamo circa 200, ci processarono, se così si può dire, e poi ci smistarono. Una parte di noi, me e mio fratello compresi, finì nel carcere di San Giovanni in Monte, a Bologna. Poi, da lì, fummo deportati. In 100 viaggiammo stipati su tre camion fino a Bolzano, e poi salimmo su un treno merci, direzione Mauthausen. Di quel gruppo siamo tornati in Italia solo in 17. Nessuno di noi pesava più di 38 chili.
Qual è il primo ricordo che ha del campo di concentramento?
La voce di un ragazzo, sul treno con noi, che mi disse: “Se finiamo a Mauthausen, nessuno saprà più nulla di noi”. Perché girava voce che quello non fosse un campo di lavoro, come inizialmente era stato impropriamente considerato. O meglio, si lavorava, sì, ma solo per morire. Quello era il fine di chi aveva creato il campo. Ma il viaggio fu talmente terribile che capimmo solo un paio d’ore dopo l’arrivo dove ci trovavamo.
Quando, di preciso?
Quando ci assegnarono un numero. Quando ci tolsero la nostra umanità, trasformandoci in cose, animali. Io ero il 115523. Mio fratello, il 115524.
Quanto tempo ha passato a Mauthausen?
Cosa ricorda di quei mesi?
La fatica, straziante, ci svegliavano alle 4.30 del mattino, e si lavorava nella fabbrica di aerei fino a sera, poi si tornava al campo. E il giorno dopo uguale. La fame, quella vera, che ti consuma, che divora il tuo corpo finché non rimangono solo le ossa. E poi il freddo. L’aspettativa di vita media, a Mauthausen, era di 4 mesi, al massimo 4 mesi e mezzo. Io ci arrivai per miracolo.
In che senso?
A salvarmi la vita fu il consiglio che mi diede un romagnolo. Mi disse: “Quando te lo chiederanno, di’ che sei un meccanico, e non un contadino”. Fu la mia salvezza: lavorare in fabbrica significava stare al riparo dagli elementi, sebbene in galleria ci fossero appena 10 gradi. E poi ti davano qualcosa da mangiare. Avessi lavorato all’esterno, probabilmente sarei morto molto prima. Si moriva facilmente: di malattia, di fame, di consunzione, per le violenze subite.
Un incubo.
Sopravvivevamo aggrappati a una sola speranza: che la guerra finisse presto. Era come vivere continuamente in un incubo di dolore, sofferenza, circondati dalla morte, e quando certe notti sognavi casa, i tuoi genitori, il profumo del pane caldo appena sfornato, era persino peggio. Perché poi aprivi gli occhi, la mattina, ed eri ancora lì. Ho pianto tanto.
Lei ha scritto un libro su ciò che ha vissuto, si intitola Finché avrò voce”.
Sì, molti anni dopo essere tornato a casa. All’inizio non riuscivo a parlare dell’orrore. Il fatto grave è che non eri creduto. Raccontavi, ma nemmeno gli amici o i genitori riuscivano a crederti. Mi rispondevano sempre “non è possibile”. Dicevano: “La guerra l’abbiamo vissuta anche noi”. Ma non capivano che i campi di concentramento erano fabbriche di morte: non andavi lì a combattere, non avevi difese. Eri lì per morire.
Poi cosa è successo?
Ho visto il film di Roberto Benigni, La vita è bella, e per me è stata una seconda Liberazione. Era tutto lì, sul grande schermo, e mi sono sbloccato. L’ho incontrato, dopo, Benigni, per ringraziarlo.
Cosa racconta oggi ai ragazzi delle scuole che le domandano dell’Olocausto?
Ricordo loro che la libertà l’abbiamo pagata a caro prezzo, e che quella parola, libertà, scopri cos’è davvero solo quando l’hai persa. Che bisogna fare attenzione all’odio, al razzismo, perché oggi in Italia queste parole dominano, ma sono pericolose. Sono ciò che ha dato il via a tutto. Non bisogna mai dimenticare. Dobbiamo stringere tra le mani, con forza, la nostra democrazia, e scegliere sempre il dialogo, il rispetto reciproco.
Ha mai rimpianto di essersi unito ai partigiani?
Io? No, assolutamente no. Anche dopo ciò che ho sofferto.