Le trasformazioni sociali e culturali portate avanti dai vari movimenti per i diritti civili hanno successo quando la società riesce a negoziare concettualmente la nuova realtà sociale che avanza, a darle un senso, a trovarle un posto nelle proprie categorie mentali e morali riuscendo a ridurre la “dissonanza cognitiva” con il proprio sistema di valori.
In un bellissimo libretto pubblicato qualche anno fa da Laterza, Prima lezione di filosofia, il filosofo Roberto Casati spiega questo ruolo di “negoziazione concettuale” della filosofia, il cui compito è quello di fornire gli strumenti per la transizione da una certa concezione della realtà a un’altra. Casati fa l’esempio (attualissimo) della complicata negoziazione concettuale che portò l’Assemblea Costituente nel 1946 all’accordo sull’art. 29 della Costituzione secondo il quale: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
La famiglia come società naturale e soprattutto l’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (con l’eliminazione dunque del ruolo del “padre di famiglia” come primus inter pares) fu il frutto di lunghe discussioni, battaglie morali e, soprattutto negoziazioni, che portarono a produrre un nuovo concetto di famiglia che apriva la strada all’Italia moderna del dopoguerra. Si sente la stessa necessità di filosofia in questi giorni davanti alla trasformazione del concetto di “matrimonio” e alla negoziazione concettuale che la proposta di legge sulle unioni civili richiede di intraprendere a tutti noi, cittadini, parlamentari, militanti, rappresentanti dei diritti civili, religiosi, non religiosi, etc.
Il matrimonio è un concetto antropologico complesso, che in tutte le culture sancisce una differenza tra unioni “legittime” e unioni illegittime (si veda la definizione dell’antropologo Dan Sperber nel libro Il contagio delle idee, Feltrinelli, 1998). Anche nelle culture in cui è ammessa la poligamia, il matrimonio sancisce questa distinzione, dando diritti differenti, per esempio, a mogli e concubine.
Ma capire quale sia la fonte della legittimità è difficile: la filiazione (chi sono i figli che hanno accesso all’eredità, tradizionalmente del padre), non è più un criterio, perché nella maggior parte delle legislazioni i diritti dei figli nati fuori o dentro il matrimonio sono stati equiparati. Dunque non sono i diritti di procreazione che definiscono il matrimonio.
Né lo è la fedeltà reciproca, dato che le culture poligamiche celebrano matrimoni e distribuiscono diritti. Né lo è l’indissolubilità del legame, dato che il matrimonio è riconosciuto in culture, come la nostra, che legittimano il divorzio. Né si distingue per la legittimazione di certe pratiche sessuali rispetto ad altre, perché nelle culture che vietano alcune pratiche sessuali (sodomia, fellazione, etc.) questo divieto è applicato sia alle coppie sposate che a quelle non sposate. Né si distingue per gli aspetti patrimoniali, che sono così legati alla storia dell’istituzione come mostra bene l’antropologo Jack Goody nel suo libro La famiglia nella storia Europea, perché il divorzio e la legalizzazione della separazione dei beni hanno indebolito lo storico legame tra accumulazione di capitale e famiglia patriarcale.
Insomma, il concetto antropologico di “matrimonio” non corrisponde a una categoria precisa, ma a una serie di pratiche sociali che hanno tra loro una somiglianza di famiglia. Non c’è un matrimonio “vero”, “giusto”, o più legittimo degli altri, solo miriadi di modi diversi di legittimare diversi legami sociali per scopi anch’essi diversissimi uno dall’altro.
Dunque non si capisce perché la legittimazione di un legame sociale tra due persone che sentono il bisogno di sentire questo legame riconosciuto debba fare i conti con le miriadi di intuizioni personali su “Che cos’è il matrimonio”. Ovviamente questo confronto di intuizioni, di senso comune, è importante per rinegoziare concettualmente il senso che diamo collettivamente al legame matrimoniale. Ma non può essere un argomento di verità: non c’è un matrimonio vero, un matrimonio giusto. Una coppia senza figli si sente altrettanto legittima di una con figli e un genitore adottivo si sente altrettanto legittimo di un genitore naturale. La questione è adattare il concetto ai nuovi legami sociali che vuole legittimare.
E’ ovvio che il legame sociale tra persone dello stesso sesso esiste in Italia e, grazie alle battaglie per il riconoscimento e i diritti civili, è sempre più banalizzato e rispettato. E’ ovvio dunque che l’istituzione volta a legittimare i legami sociali riconosciuti dalla società debba evolvere per includere questi legami, che sono finalmente riconosciuti socialmente grazie a battaglie coraggiose.
Ciò che va contro l’intuizione di alcuni non vuol dire che sia “contro natura”: il senso comune non ha nessuna autorità, se non quella di costringerci a pensare e a negoziare i nostri concetti spontanei per adattarli alla realtà sociale – o naturale, che evolve. Ricordiamoci che nel 1961, l’anno in cui nacque l’attuale presidente degli Stati Uniti Barack Obama, la miscegenazione, ossia la procreazione tra bianchi e neri, era un delitto, un atto “contro natura” punito ancora in 17 stati e definitivamente eliminato nel 1967.
Negoziare con le nostre intuizioni e un’operazione difficile, a volte dolorosa, che ci fa perdere a volte il rapporto più ‘naturale’ che abbiamo con il mondo, che passa attraverso il nostro senso comune. Usare la ragione significa essere capaci di fare evolvere il nostro senso comune, le nostre categorie, i nostri stereotipi e rinegoziare la realtà che ci sta davanti. E’ così che si va avanti e si fa andare avanti la società.