Cultura

‘Vader’, quando le colpe dei padri ricadono sui figli

BRUXELLES – “Un uomo sa quando sta diventando vecchio perché comincia ad assomigliare a suo padre” (Gabriel Garcia Marquez)

Chi non desidera la morte di suo padre?” (Fedor Dostoevskij)

La morte del padre è sempre, per qualunque figlio, un dolore mescolato di rimorsi” (Indro Montanelli)

Le colpe dei padri ricadono sui figli. Vero, come è vero anche il contrario. Le scelte dei figli ricadono sui padri. Il nodo centrale di Vader (traduzione padre, appunto) del gruppo di sede belga, eterogeneo e cosmopolita, Peeping Tom è il rapporto e le dinamiche che si scatenano e s’infrangono tra un figlio, non più giovanissimo, ed un padre molto anziano, alle soglie del fine-vita, portato in un ospizio molto particolare, sospeso tra incubo e sogno, a mezz’altezza tra il catastrofico e l’irreale, tra il paludoso e l’angelico.

Avevamo già visto un lavoro precedente dei Peeping (il nome è il titolo di un film anni ’60, letteralmente significa “guardone”, ma anche un progetto musicale pop creato da Mike Patton, ex Faith No More) 32, rue vandenbranden (Biennale di Venezia ’13) e qui abbiamo ritrovato le stesse potenti sottotracce: il segreto, il nascosto, il non detto, il passato che ritorna a bussare, il senso di colpa che non permette di vivere serenamente il presente, la sconfitta e l’impotenza che aleggiano tiranniche, l’avvoltoio che sopra controlla e scruta in attesa della caduta definitiva di questi personaggi in balia di se stessi e delle loro scelte, il noir e la suspense.

C’è nell’aria qualcosa di strano e di accattivante, di magico, maligno ed etereo che oscilla e frizza attorno a questo ospizio, che somiglia molto all’Overlook Hotel di Shining, all’interno del quale si svolge e si dipana la matassa aggrovigliata delle generazioni a contrasto. Un reparto geriatrico che genera una forte attrazione, come triangolo delle Bermuda, che esercita su tutti quelli che vi gravitano attorno, dove gli inservienti sembrano pazienti e viceversa. Un lavoro d’impatto (sette gli attori della compagnia più dieci anziani a fare un coro muto e una coreografia di movimenti statici) che miscela teatro fisico e teatro danza, grandi evoluzioni a terra, balli poderosi di quadricipiti e caviglie scomposte.

Sembra di stare ad una di quelle feste da college statunitense quando dal palco, o al piano, una improbabile band (vergano la brasiliana “Aguas de marco”, ad un ritmo estenuante e lentissimo, rimasterizzata da noi da Mina e Fossati, o l’evergreen “Feelings”) composta da ultraottantenni va giù a fondo con contrabbasso, violino e batteria, un party annacquato e vagamente tristanzuolo, come moquette sbiadita, come intonaco verde pallido, come certi colori acquarello svaporato che tanto ricordano le minestre rancide o i maglioni da Germania dell’Est, quel sapore di carta da parati consunta da profondo british, quel pastello stinto che inquieta e intenerisce.

In questo refettorio forzato, anticamera della morte, dove un rumore di fondo allarmante e angosciante annebbia, le infermiere sono kapò-freaks in questo sistema militaresco, carcerario iperorganizzato da Grande Fratello controllore, gli anziani sono deportati, reclusi, ingabbiati contro la loro volontà in questo finto clima di serenità costruita, di calma apparente. Ed il figlio (sentori e riverberi anche da Sul concetto di volto nel figlio di Dio di Romeo Castellucci), che ha portato qui il padre, ne vive il contrappasso dantesco, sostituendosi a lui, rivivendo quello che ha fatto vivere al padre, oppure è proprio lui il padre che ricorda, nella sua mente da demenza senile o da alzheimer, spostando le pedine e sdoppiandosi nei pochi momenti di lucidità, il se stesso che era stato.

Padre e figlio (situazione parentale che ci porta alla recente pellicola Nebraska) vengono chiamati entrambi “dad” e questo scompagina, assomma, crea un parallelismo, un avvicendamento e rimpiazzo che con il passare del tempo diviene sempre più chiaro ed esplicito in questa progressiva perdita della memoria del sé.
Un incubo nell’incubo, tetro, scuro, fitto, dove non esiste via di fuga, dove c’è un tempo immobile, fermo in questa bolla, dentro ad un tempo che si muove, quello del sogno, costretto a vivere a ritroso le proprie azioni, impossibilitato però a porvi rimedio. Non fare agli altri quello che non vorresti venisse fatto a te.

Visto al “Het Theater Festival”, Kaaitheater, Bruxelles, l’11 settembre 2015.