Mandare in onda l’orrore. Forse il peggiore del XX secolo. Questo accadeva nel 1961 a Gerusalemme, quando il produttore televisivo Milton Fruchtman e il regista Leo Hurwitz si imbarcano nell’impresa di video-riprendere il processo al criminale nazista Adolf Eichmann. Nasceva così The Eichmann Show, un evento televisivo epocale essendo la prima volta che un processo andava in diretta tv su scala mondiale. Divenuto omonimo film di produzione britannica lo scorso anno, esce anche nelle sale italiane come evento speciale per la Giornata della Memoria: la pellicola rimarrà infatti nei cinema solo oggi, domani e il 27 gennaio.
Rigoroso, puntuale e a tratti emozionante, il film ripercorre tutte le tappe produttive dello “Show” il cui backstage diventa il luogo protagonista della messa in scena. Se il genere è decisamente drammatico, il filone di appartenenza dell’opera diretta da Paul Andrew Williams è quello del meta-cinema, o più esattamente “il cinema che osserva lo sguardo televisivo”. È naturale quindi che l’operazione cinematografica sia “a servizio” del suo importante ed imponente argomento, caratteristica che non ne sminuisce affatto il valore, benché non si tratti di un film di memorabile fattura. La narrazione dell’osservazione del “mostro” Eichmann da parte delle videocamere nascoste e preposte a videoriprendere il processo è il nodo principale dell’intero film: al punto di vista incarnato dal regista Leo Hurwitz (un ottimo Anthony LaPaglia) – un ebreo americano – importa più di (rac)cogliere le eventuali reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze rilasciate da alcuni sopravvissuti dei campi di sterminio che non i “fatti” o “le parole” che prendevano forma nell’aula del tribunale di Gerusalemme. Questo è un elemento chiave, perché è lì che il cinema si fa indagatore dello sguardo televisivo operato dal soggetto enunciatore, sia dello “Show” sia del film che ne fa il suo oggetto.
L’equivalenza audio-visiva contribuisce al processo di identificazione dello spettatore che – soprattutto nella seconda parte dell’opera – non può non farsi coinvolgere. La caccia ai sentimenti del criminale sembra il cuore di tutto, specie perché Eichmann dichiarò testualmente: “Non rivelerò mai i miei sentimenti più profondi”. Il vero stupore risiede non tanto nella mancata rivelazione, quanto nel fatto che il nazista conoscesse il termine sentimenti. La dichiarazione fece assumere la natura umana a chi perpetrò gesti decisamente disumani: non è un caso che questo straordinario evento giudiziario sortì la genesi di uno dei più importanti testi di filosofia morale che porta il titolo de La banalità del male, scritto dalla filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt. Il film non crea alcuna retorica nonostante la tentazione fosse inevitabile di fronte a un tale soggetto, che poco si distanzia dall’evocazione “mediata” del Male assoluto.