Non c’è solo Forza Italia a storcere il naso di fronte alla nuova legge – approvata al momento solo alla Camera – che introduce anche in Italia il “whistleblowing“, prevedendo tutele per il dipendente che segnala episodi di malaffare dall’interno dell’ente o dell’azienda in cui lavora. Anche i puristi della lingua – compresi diversi commentatori di ilfattoquotidiano.it – lamentano l’uso della parola inglese, per giunta un po’ ostica. Ma esiste davvero una corretta traduzione in italiano, scartando la trasposizione letterale in “colui che soffia nel fischietto”, insomma un “fischiettatore”? La risposta, purtroppo, è no. A dirlo è la massima autorità in materia, l’Accademia della Crusca. “Al momento, nel lessico italiano non esiste una parola semanticamente equivalente al termine angloamericano”, scrive sul sito dell’Accademia Maria Cristina Torchia della redazione consulenza linguistica, in risposta a un quesito posto a suo tempo da Pagina 99.
Molto interessante è la motivazione di questa lacuna: l’assenza del termine “è, in effetti, il riflesso linguistico della mancanza, all’interno del contesto socio-culturale italiano, di un riconoscimento stabile della ‘cosa’ a cui la parola fa riferimento”. Se non abbiamo mai avuto bisogno della parola, insomma, è perché non abbiamo mai sentito il bisogno del concetto. “Infatti, per ragioni storiche, socio-politiche, culturali – spiega Torchia – in Italia, ciò che la parola whistleblower designa non è stato oggetto di attenzione specifica, riflessione teorica o dibattito pubblico, almeno fino a tempi recentissimi”.
Peggio. Le parole che più si avvicinano a “whistleblower” hanno una connotazione negativa. E – a riprova del nesso fra lingua e spirito della Nazione – sono entrate in pieno nel dibattito politico sulla nuova legge. In Parlamento, all’indirizzo dell’altrove apprezzato segnalatore di malaffare è risuonata la parola “delatore“. Cioè, spiega il sito della Treccani, “chi per lucro, per vendetta personale, per servilismo verso chi comanda o per altri motivi, denuncia segretamente qualcuno presso un’autorità giudiziaria o politica”. Una cosa tutta diversa dalla definizione coniata in Usa da Ralph Nader, il celebre paladino dei diritti dei consumatori e candidato alla presidenza, che la Crusca indica come il vero inventore del moderno whistleblowing. Inteso come “l’azione di un uomo o una donna che, credendo che l’interesse pubblico sia più importante dell’interesse dell’organizzazione di cui sono al servizio, denuncia che l’organizzazione è coinvolta in un’attività irregolare, illegale, frudolenta e dannosa”. Altro che delatore.
E se negli Usa la tutela del whistleblower ha un antico precente addirittura con Lincoln (il False Claim Act del 1863, che prevedeva ricompense per chi denunciava frodi governative), in Italia i termini che gli somigliano tendono ad avere tutti un’accezione negativa. “Talpa” per esempio, “fa pensare a casi come le ‘talpe in procura’, non certo positivi”, spiega Maria Cristina Torchia a ilfattoquotidiano.it. “O ‘gola profonda‘, che di solito è la fonte anonima (la legge approvata alla Camera esclude invece l’anonimato, anche se tutela la riservatezza del denunciante, ndr) di un giornalista”. Allo stesso modo, sarebbe quanto meno ingrato ridurre il virtuoso angelo custode del denaro dei contribuenti a un “informatore” – che sa tanto di balordo in confidenza con gli sbirri – o a una “spia“, roba da fucilazione alla schiena. Tanto meno a un “soffiatore” o “spifferatore” – altri termini inclusi nella disamina della Crusca – che sanno un po’ di cartone animato.
Nei suoi report italiani, ricorda ancora Torchia, Transparency ci ha provato con “vedetta civica” o “sentinella civica“, ma senza troppa fortuna. Il nostro legislatore, che notoriamente non ha il dono della sintesi, se l’è cavata con “dipendente o collaboratore che segnala illeciti“, nonché “autore di segnalazioni di reati o irregolarità nell’interesse pubblico“. Ma provate a infilarli nel titolo di un giornale (o sito).
I nostri “vicini” linguistici hanno iniziato a utilzzare lanceur d’alerte, denonciateur e informateur (Francia), alertador o denunciante (Spagna), mentre in Germania si utilizza il termine anglosassone, o in alternativa informant. Ma nessuno di questi pare rendere completa giustizia al “fischiettatore”.
Allora, che fare? “Al momento l’utilizzo del termine anglosassone è inevitabile”, spiega la ricercatrice dell’Accademia della Crusca, “e va accompagnato da parafrasi che lo spieghino”. Le speranze di una via italica al whistleblowing, però, non sono perdute. “‘Denunciante/segnalante anticorruzione’, o ‘segnalatore di illeciti’ non sono belle espressioni, ma possono far partire la discussione. Soltanto l’interesse pubblico, il progredire del dibattito intorno alla ‘cosa’ designata consentirà di sviluppare e radicare una designazione linguistica condivisa”.