Qualche tempo fa, in una serata informale, un amico accademico spiegava con genuina apprensione a un gruppo di sodali le sue personali remore nei confronti del Movimento 5 Stelle: “Mi fanno paura per via della loro ossessione per l’ordine. Molti di loro portano con sé il gene gerarchico del controllo sociale: un istinto repressivo, poliziesco” ci diceva. Temeva, a dirla tutta, che una parte dell’Italia (ex?) missina – e di riflesso i suoi contenuti ideologici – fosse confluita nel contenitore ideato da Grillo. Forse, però, il limite più grosso dei 5 Stelle è un altro, anche se non totalmente slegato dalla preoccupazione del collega.
Una digressione storica può aiutare a inquadrare il problema. Tra il 1955 e il 1972, Juan Domingo Perón, il generale argentino tre volte presidente, visse in esilio in diversi paesi. In quel periodo divenne l’icona dell’opposizione al regime repressivo che l’aveva scalzato dal potere nel 1955: un’opposizione che, ripristinata la democrazia, culminò con una nuova affermazione di Perón nelle elezioni del settembre 1973. Durante la sua assenza, la comunicazione di Perón con i propri seguaci risultò influenzata da un particolare: in qualità di esiliato, doveva astenersi dal condurre attività politica nei paesi ospitanti e si limitò all’invio di lettere private, cassette e istruzioni verbali. Fu proprio questa peculiarità ad accentuare l’ambiguità dei suoi messaggi e a tratteggiare i contorni della sua politica populista.
Di che populismo stiamo parlando? La retorica di Perón si basava su una serie di coordinate che significavano cose diverse a fazioni diverse. Attorno alla sua indiscussa centralità si congregarono anime politiche e classi sociali completamente agli antipodi. Ogni gruppo quindi si sentiva interpellato dal discorso del leader, ma quel discorso era interpretato nei modi più svariati. Per utilizzare l’analogia freudiana cara a Ernesto Laclau: si trattò di una situazione estrema in cui l’amore per il padre è il solo vincolo tra i fratelli.
Tornato al potere, di fronte alla necessità di prendere decisioni, Perón non fu capace di tenere insieme fazioni che lottavano per obiettivi diversi e che fra loro si odiavano. Nei pochi mesi dell’ultima presidenza, le divisioni all’interno del peronismo ne rivelarono la fragilità. La lotta che seguì alla morte di Perón portò a un processo di rapida de-instituzionalizzazione, che culminò con gli anni della sanguinosa dittatura militare.
Nonostante le diverse particolarità storiche, l’analogia tra Perón e Grillo risiede proprio nella ‘dilatazione’ degli elementi articolati nel proprio discorso e i rischi di inconcludenza che ne conseguono. Certo, il M5S non comprende fazioni vere e proprie che rischiano un domani di farsi la guerra così come fecero la destra peronista e i montoneros, ma reca con sé una serie di contraddizioni che potrebbero renderne l’azione politica insostanziale. Al pari di Perón, infatti, l’orientamento politico-ideologico risulta ambiguo e di difficile classificazione, in quanto accomoda obiettivamente una serie di aspirazioni e domande sociali storicamente incompatibili.
Nella divisione tra onesti e disonesti che caratterizza il discorso pentastellato non c’è infatti posto per un’analisi seria dei conflitti redistributivi, giacché vi trovano spazio precari, disoccupati, studenti, operai, ma anche liberi professionisti, imprenditori e, perché no, persino grandi capitalisti. Parallelamente troviamo coesistere varie identità politiche: comunisti, fascisti, liberisti, ecologisti e quant’altro. Ma allora viene da chiedersi: se raggiungeranno il potere, cosa faranno? Riformeranno i contratti precari più umilianti da cui traggono profitto gli imprenditori? Finanzieranno il redditto di cittadinanza con una tassa sui ricchi o togliendo gli asili pubblici? Smantelleranno il sociale come già fatto a Parma da Pizzarotti o combatteranno le politiche di austerità? Adotteranno un approcio di stretto legalitarismo anche con gli amici No-Tav? E sulla questione immigrazione e integrazione come si porranno? Osteggeranno lo ius soli come vorrebbero Grillo e Casaleggio o daranno prova di maggior apertura come dimostrato da alcuni dei loro parlamentari? Già, e di politica internazionale che ne pensano?
Il vero rischio è che, proprio come il peronismo, il M5S non regga alla prova del potere e all’uscita di scena del proprio leader. D’altronde, quando la risoluzione delle questioni è rimandata a una non meglio precisata ‘tecnica’, si apre la strada alla confusione quando non all’arbitrarietà, proprio perché le questioni sono intrinsecamente politiche e quindi legate a schemi intepretativi della realtà.
Questo non significa che il populismo sia uno strumento trasformista. Non vi è politica se un progetto non cerca di costruire, attorno al proprio nucleo di riferimento, un popolo più ampio. Persino Togliatti si rivolse a più riprese ai ‘fascisti in buona fede’, ma questo appello presupponeva una loro re-identificazione nel solco di una diversa tradizione politica, non un’addizione statica di pezzi di società. Per rendere il proprio populismo meno ‘dilatato’ e creare un’identità politica radicalmente nuova, il M5S avrebbe bisogno almeno di alcuni contenuti ideali di riferimento. Mi permetto di suggerirne alcuni, per quanto generici: lotta alle disuaglianze, giustizia sociale, emancipazione.
Ma non lo vedono che è proprio nella sempre più conclamata breccia tra i pochi e i molti che avviene il vero fallimento etico della nostra società? È tempo che il M5S sposti la propria attenzione sulle élite economiche e apra gli occhi su chi ha veramente sequestrato la democrazia.