Quando la magistratura italiana si è occupata per la prima volta dei danni cagionati alla popolazione dalla centrale Enel di Porto Tolle, non esistevano gli “ecoreati” e quindi le contestazioni si incentrarono soprattutto su alcuni articoli generali del codice penale, quali il danneggiamento aggravato e la molestia alle persone. Purtroppo, sotto il profilo penale, come spesso accade per vicende complicate, quasi tutto finì con la prescrizione dei reati, dichiarata dalla Cassazione con la sentenza n. 16422 del 27 aprile 2011.
Ci fu, poi, per fatti successivi, un’altra sentenza del marzo 2014 con condanna da parte del Tribunale di Rovigo a carico di Paolo Scaroni e Franco Tatò per disastro innominato; sentenza, tuttavia, per quanto mi risulta, gravata da appello e, quindi, non definitiva (ma, comunque, anche essa emessa prima degli ecoreati).
Dal 22 maggio 2015, tuttavia, sono finalmente stati introdotti nel nostro codice penale i delitti contro l’ambiente (“ecoreati“), con termini di prescrizione raddoppiati. Ed allora, in attesa che si concluda il secondo processo, sembra interessante capire se oggi la sorte del procedimento Enel di Porto Tolle sarebbe stata diversa. Vale la pena di ricordare che uno dei punti controversi riguardava la condanna per le emissioni oleose emesse dalla centrale (con gravi effetti sull’ambiente) nonostante mancasse la prova che le emissioni ordinarie avessero superato i limiti di legge.
La difesa degli imputati Enel, infatti, arrivò addirittura a concludere che “in tal modo il giudice ordinario finisce per invadere la sfera di discrezionalità della pubblica amministrazione, cui è demandata la fissazione del punto di equilibrio fra i diversi interessi coinvolti“. Argomentazione respinta nettamente dalla Cassazione in quanto “anche in presenza di emissioni autorizzate e contenute nei limiti residuano doveri di attenzione e di intervento del gestore dell’impianto industriale, il quale, in presenza di ricadute ulteriori e diverse dalle emissioni sull’ambiente e sulle persone, è chiamato ad adottare quegli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per un loro ulteriore abbattimento“. Conclusione confermata, peraltro, anche dalla sentenza del Tribunale di Rovigo del 2014, la quale, riprendendo le sentenze del primo procedimento, si premura di precisare giustamente che se c’è pregiudizio di un bene di rango costituzionale, quale la salute, non si può applicare la teoria del cosiddetto “rischio consentito”.
Oggi, con gli ecoreati, il reato applicabile sarebbe quello di “inquinamento ambientale” che prevede la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 10.000 a euro 100.000 per “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese e significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”.
Quale sarebbe allora il risultato oggi di questo procedimento del 2011? Non la prescrizione, perché i termini sono raddoppiati. Ma, probabilmente, addirittura l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Si tratterebbe, infatti, di un deterioramento dell’ambiente provocato non “abusivamente” ma secondo legge, visto che manca la prova del superamento dei limiti da parte delle emissioni ordinarie.
Ed è appena il caso di ricordare che, nelle sue audizioni in Parlamento, la Confindustria, non a caso, aveva chiesto di scriminare “chi, pur operando nel rispetto degli standard di legge nell’esercizio di attività d’impresa, talvolta incorre per lo più a titolo di colpa in violazioni di norme a tutela dell’ambiente”.
In altri termini, con quell’avverbio (“abusivamente”) l’illecito ambientale si configura solo se vi è una prova di violazione di legge o di prescrizioni anche se è evidente che legge e prescrizioni sono largamente di favore o carenti ed anche se è evidente a tutti, in primo luogo all’azienda, che si stanno, comunque, provocando danni gravi all’ambiente ed alla salute.
Insomma, con “abusivamente” la responsabilità dell’impresa deve essere “perimetrata dal rispetto delle norme di legge e delle pertinenti prescrizioni amministrative” e non può derivare da colpa generica per imprudenza, imperizia o negligenza. Di conseguenza, il reato non dipende dal danno che si provoca ed il fulcro del giudizio non è il giudice ma la pubblica amministrazione.
Per fortuna, qualcosa si sta muovendo. Un gruppo di giuristi ambientali ha già predisposto poche modifiche da apportare alla legge sugli ecoreati, senza stravolgere niente ma solo per eliminare le incongruenze più evidenti, quali quell’ “abusivamente”, di cui l’esempio di Porto Tolle del 2011 sembra essere la migliore riprova.