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Disastro dello space shuttle Challenger: 30 anni fa l’esplosione in diretta mondiale tv. La sfida dell’uomo, oltre il limite della vita

“Obviously a major malfunction”. Quando alle 11e39 del 28 gennaio 1986 la voce dal centro comando della Nasa commentò in modo asettico l’esplosione dello Space Shuttle Challenger, l’America attonita e stordita continuò a guardare lo schermo tv. Incredula e incapace di registrare in un amen il fallimento

di Davide Turrini

Obviously a major malfunction”. Quando alle 11e39 del 28 gennaio 1986 la voce dal centro comando della Nasa commentò in modo asettico l’esplosione dello Space Shuttle Challenger, l’America attonita e stordita continuò a guardare lo schermo tv. Incredula e incapace di registrare in un amen il fallimento dell’avventura della conquista dello spazio in diretta tv, l’occhio poté solo osservare la coppia di scie gemelle di fumo in cui lo shuttle si era spezzato, come una Y infinita di ferraglia fusa e polvere di resti umani.

Qualcuno pensò all’istante che quel ‘malfunction’ fosse un eco riferita all’ex presidente Nixon appena ricoverato in ospedale. Invece niente breaking news presidenziale. Sui cieli della Florida fu il de profundis della missione Nasa, della potenza statunitense nello spazio dissolta davanti al naso di una nazione. C’era sì stata l’esplosione dell’Apollo I il 27 gennaio 1967, non ancora pronto al lancio. Ci sarà il 1 febbraio 2003 il disintegrarsi dello Space Shuttle Columbia nella traiettoria del rientro dopo 15 giorni di volo esplorativo.

Ma quella palla arancione infuocata dello Space Shuttle Challenger in diretta tv mondiale fu qualcosa di molto più sconvolgente e simbolicamente epocale per l’immaginario storico americano. Superata solo dal crash dei boeing sulle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2001. Qui l’invasione nemica sul suolo protetto; là il fallimento tecnico, l’incapacità di vincere la sfida con l’infinito spazio cosmico. Qualcuno ricorda che in quella diretta tv c’erano perfino familiari e amici là sotto a terra con il naso puntato all’insù, sguardo spettatoriale attivo dal centro Nasa, soggetti passivi di fronte alle telecamere di CNN e NBC.

I parenti dei piloti incapaci di capire, di mettere a fuoco le immagini lontane. La sfida dell’uomo che è andata oltre il limite della vita. “We’re leaving together/But still it’s farewell/And maybe we’ll come back/To earth, who can tell?”, cantavano gli Europe in quell’anno con The Final Countdown. Nelle sale cinematografiche statunitensi Ivan Drago minacciava da qualche mese Rocky Balboa con il celebre “ti spiezzo in due”. Ma Rocky vinceva, distruggeva l’uomo/macchina sovietico programmato per ridurre in poltiglia l’Occidente.

Solo che il 28 gennaio 1986 il destino si ribaltò, fede politica reaganiana e misticismo patriottico repubblicano si sciolsero per un errore meccanico, una casualità del destino. Un po’ come quel Superman che il 26 gennaio era stato ritirato dalle sale cinesi perché “non è un vero salvatore, ma piuttosto un narcotico che la classe capitalista dà a sé stessa per respingere le sue numerose crisi”. Il presidente attore rimandò il previsto discorso alla nazione e intervenne a sera, a reti unificate, citando il pilota/poeta John Gillespie MaGee morto sui cieli inglesi nel 1941, finendo a sua volta ricordato per sempre grazie ad un discorso toccante: “We will never forget them, nor the last time we saw them, this morning as they prepared for the journey and waved goodbye and ‘slipped the surly bonds of earth’ to ‘touch the face of God’ ”.

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