“Il più grande problema del precariato è la delusione. Per studiare ci vuole tanta motivazione, a me l’hanno tolta. E questo non mi va giù”. Alessia, 35 anni, abita in provincia di Roma, ha una figlia piccola e un altro bambino in arrivo. Esercita ormai da sei anni come collaboratrice in uno studio di architettura attivo nel campo dell’edilizia. Lavoratrice autonoma non per scelta, ma per necessità: “Mi piacerebbe fare questo lavoro come dipendente, ma in Italia è quasi impossibile”.
Nel girone infernale dei delusi, è in buona compagnia. Secondo un’indagine del Consiglio nazionale degli architetti, i laureandi nella disciplina sono crollati del 51% nel periodo 2009-2014. “Non ho più neanche la soddisfazione – racconta Alessia – Troppi compromessi, poche le garanzie, tanti i doveri, gli orari sono massacranti, incompatibili con la vita da mamma. E il rientro economico non c’è”. Già, il rientro economico. “Rasentiamo la povertà – prosegue la professionista – Un collaboratore come me guadagna 8-900 euro netti al mese, lavorando 10-12 ore al giorno”. Secondo un rapporto Adepp, il reddito degli architetti iscritti alla cassa previdenziale è calato del 17,3% negli ultimi dieci anni.
“Ho bisogno di entrate, devo pagare un affitto e mantenere i miei figli, non posso aspettare i pagamenti dei clienti
Le ristrettezze economiche costringono ad andare a lavorare anche quando la salute non lo permette: “Durante questa gravidanza, ho problemi di salute: avrei necessità di stare a casa, ma non posso. Devo lavorare un po’ di ore per guadagnare qualcosa”. Anche perché il marito ha un’occupazione, ma anche lui è precario. “Siamo sempre riusciti a pagare l’affitto, magari rinunciando alle vacanze – dice Alessia – A volte abbiamo dovuto chiedere aiuto ai nostri genitori, per farci la spesa, comprarci qualcosa”. Ma al di là del sostegno della famiglia, la professionista deve tirare avanti in qualche modo: “Ho bisogno di entrate, devo pagare un affitto e mantenere i miei figli, non posso aspettare i pagamenti dei clienti”. I ritardi dei committenti, infatti, sono un’altra piaga che affligge gli autonomi. Nel 2013, ricorda il Consiglio nazionale, un architetto doveva aspettare in media 172 giorni per farsi pagare da un’impresa, 217 da una pubblica amministrazione, un trend in continua ascesa. E per uscire da questa spirale in molti si sono rivolti alle banche: nel Nord Italia, il 57% degli architetti ha debiti con istituti di credito, società finanziarie o fornitori. A questo Alessia non è arrivata, ma è giunta a un’altra conclusione: “Forse non potrò mai fare l’architetto. Dovessi fare la cassiera, con un contratto, la farei”.