A volte in certe notizie marginali trovi lo specchio dei tempi, più che in una dichiarazione di Draghi o nella discussione sul Jobs Act. Leggo che a Portofino scompaiono le boutique. Dopo Hermés chiudono i battenti Ungaro, Panerai e Zegna sostituiti da Multibrand. Ma soprattutto, nella storica piazzetta, il ristorante Pitosforo lascia il posto a una semplice pizzeria “alla portata di tutti”. Là dove è passata tutta Hollywood, oggi la famigliola può sedersi e mangiare una pizza a 9 euro, fare un selfie e ripartire.
Mi riempie di orgoglio l’imprenditore che afferma “Oggi non ha più senso parlare di lusso. Preferisco coniugare cultura e qualità del prodotto”. Quanto spreco e quanti anni di insensata vanità e assurda pretesa del “lusso per tutti” sono passati sotto i ponti e davanti agli occhi di tutti noi, prima di arrivare a questa conclusione, che è una vera rivoluzione nei costumi da cui discenderanno certamente tempi migliori? Consentitela a me una piccola vanità, da ex imprenditore del tutto fuori dai giochi e semplice osservatore, perchè io quella regola con al centro la “cultura e qualità del prodotto” l’ho seguita e difesa per tutta la vita, contro tutto e tutti. Ed ero visto come arretrato, antiquato, uno che “non sa fiutare i tempi”. Mentre tutti si imbottivano di pubblicità e testimonial, defilé e feste e provocazioni in quegli anni folli in cui tutti diventavano star, geni dello stile e formidabili “artisti”, e io che a volte persino mi rifiutavo di andare al Pitti, continuavo a ripetere che nel tessile contava solo questo “cultura e qualità del prodotto” (lo testimonia un mio libretto “carbonaro” di tanti anni fa dal titolo “Mercanti di Moda” che ancora possiedo in qualche copia, scritto con lo pseudonimo di Sean Blazer).
Non riuscivo ad accettare che la massaia dovesse accendere la tv o aprire una rivista e sentirsi inadeguata perché non aveva la giacca o la borsa firmata. Mi irritava vedere che tante carriere mirabolanti erano costruite su dinamiche economiche basate sullo spreco di denaro pubblico. Perché è da lì che sgorgava la massa di liquidità per cui anche l’impiegato aspirava a comprarsi la sua barca o la casa al mare, e per il superfluo si indebitava.
Si sa che il lusso vero non mai avuto bisogno di farsi pubblicità, anzi. Si trattava di un finto lusso, una trovata pubblicitaria, una truffa ai danni delle persone semplici ma smaniose di apparire, l’imposizione aggressiva di modelli di felicità inarrivabili, la bellezza, il denaro facile. Ma tutto ciò a scapito della “cultura e della qualità del prodotto” che è il valore vero e vera soddisfazione dell’imprenditore, e lo dico per esperienza. Si è fatta largo prepotente invece la società dell’immagine, la vendita del fumo, il culto dell’effimero, che ha contaminato tutti. Un tempo si sapeva che un idiota su una Ferrari resta un idiota, poi quell’idiota non solo ha cessato di esserlo “in virtu” della Ferrari, ma è diventato modello per le masse. Io sapevo che non poteva durare, ma abbiamo dovuto attraversarlo per lunghi decenni. E ancora ne serviranno per recuperare concretezza di fronte al “prodotto”, cioè la diffusa capacità di chiedersi “quanto vale veramente?” “a chi serve?” “risponde a un reale bisogno”?
Ora che sento tornare quell’antico motto non mi compiaccio di aver avuto a suo tempo l’intuizione giusta. Perché sono spinto a immaginare come sarebbe il Paese se avesse mantenuto la strada del rigore e non avesse seguito le sirene dell’effimero. Credo ci saremmo trovati con un tessile vincente e impareggiabile come qualità/prezzo a livello mondiale, con una distribuzione di larghissima scala (meglio degli spagnoli di Zara), tanto lavoro e un debito sostenibile. Ma soprattutto, un cittadino consumatore più partecipe e civile.
In collaborazione con Alox-Media