“La morte di Steve Jobs, l’inquinamento globale, le Torri Gemelle, la strage dell’Isis a Parigi”. Se chiedete a un ragazzo dai dieci ai tredici anni di ricordare un evento della storia del Novecento, difficilmente vi risponderà “l’Olocausto”. È successo anche mercoledì mattina quando, entrato in classe, ho domandato ai miei ragazzi: “Che giorno è oggi?”. Qualcuno ha accennato alla parola memoria, altri hanno intuito di cosa stavamo parlando, ma non trovavano le parole per spiegarmelo, fin quando Lorenzo ha accennato alla Shoah spiegandomi: “Stamattina mia mamma mi ha detto che è una festa con la ‘h’”.
È in quel momento che ho sentito ancora una volta l’urgenza di fare memoria e di dare un senso a questa data, il 27 gennaio. A oltre settant’anni dalla più grande tragedia del secolo scorso, i nativi digitali cresciuti nell’epoca del terrorismo islamico, rischiano di conoscere quanto accaduto tra il 1938 e il 1945 alla stregua di un evento qualsiasi della storia, riassunto in dieci righe di un libro di storia o nel consueto film Il bambino con il pigiama a righe.
Mercoledì in classe non ho mostrato alcuna foto dei campi di sterminio, alcuna immagine di Auschwitz, dei forni crematori ma ho fatto ascoltare loro le voci di chi ha vissuto sulla propria pelle la vita in un campo di sterminio. Abbiamo ascoltato in diretta streaming Liliana Segre raccontarci delle leggi razziali; letto pagine del partigiano Armando Gasiani, toccato con mano le pagelle con il timbro “razza ebraica”. Parole vive che hanno stimolato l’ingrediente essenziale per chi insegna: la curiosità. “Maestro ma dove facevano pipì su quei treni che andavano verso Auschwitz?”, ha chiesto Sonia. E Manuel: “Ma gli altri, i non ebrei, non facevano nulla? Perché?”.
E come non parlare loro dello sterminio degli omosessuali, dei disabili e del popolo rom ancora oggi discriminato persino nel dizionario dei bambini: “Ah gli zingari, quelli che rubano. Anche loro sono stati uccisi?”. Mercoledì ho raccontato loro di qualcosa “vicino”, palpabile, raggiungibile: il campo di Fossoli, la risiera di San Sabba, Marzabotto.
Ho assegnato il compito di turbare i weekend dei genitori chiedendo di accompagnarli in questi luoghi sacri che non possono essere citati solo una volta l’anno in occasione della “giornata della memoria” ma che vanno declinati giorno per giorno: come si può spiegare il Friuli Venezia Giulia citando Trieste e non la risiera di San Sabba? Parlare di Emilia Romagna è anche raccontare dell’eccidio di Monte Sole, è anche spiegare ai ragazzi chi sono i volti di quegli uomini e di quelle donne ritratti nelle fotografie in piazza Maggiore a Bologna.
Far “rivivere” la storia, questo è il compito di chi fa memoria. Un ruolo che può essere svolto solo da chi, con professionalità e competenza, conosce i luoghi e i testimoni di quella tragedia. Sono gli insegnanti ad avere per primi il compito di raccogliere il testimone e non ci dovrebbe essere docente che non è mai stato al “Binario 21” a Milano, a Fossoli o al campo di concentramento di Birkenau. Mercoledì ho portato in classe uno di quei sassi raccolti sul binario di Birkenau perché davanti a quei camini ho pianto. Ho raccontato loro di quel timbro sul braccio di Elisa Springer perché ho avuto il dono di conoscerla.
Va detto con franchezza: non basta essere un professore per accreditarsi il compito di spiegare questo “pezzo” di storia. Non basta leggere Il diario di Anna Frank, va spiegata e fatta rivivere quella casa in Prinsengracht 263 ad Amsterdam, attraverso le immagini e con l’aiuto della Rete. Risultato? A fine lezione senza che lo proponesse il maestro, i miei ragazzi hanno chiesto di portarsi a casa i libri che stavano sulla cattedra: L’albero della memoria di Anna Sarfatti, Fino a quando la mia stella brillerà della Segre; Nessuno mai mi chiese del partigiano Gasiani e Razza di zingaro di Dario Fo.
Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2016