Costretta a rientrare a scuola dove era presa di mira da alcuni compagni Chiara si è sentita senza via di scampo e ha optato per quel gesto sconsiderato. Stava vivendo un dramma e non lo aveva spiegato bene a nessuno. Forse si vergognava, forse pensava di non potersi fidare.

In effetti se un ragazzo è preso di mira dai compagni raramente lo fa sapere, magari per paura di non essere creduto o per poca fiducia nell’adulto, magari perché si sente fragile e debole e teme per la propria incolumità fisica, o perché ha paura di essere deriso e umiliato, di venire escluso in misura maggiore di quanto non stia già accadendo e peggiorare ulteriormente la situazione.

Paura e vergogna gli impediscono di reagire.

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Spesso i ragazzi sono bravi a nascondere i problemi, e dobbiamo ricavarli dall’osservazione più che dalla comunicazione diretta: vigilando a distanza per esempio sull’andamento scolastico, soprattutto se avvengono oscillazioni inaspettate nel rendimento e si nota una perdita di interesse e di motivazione allo studio; registrando i bruschi cambiamenti di abitudini o di umore; rilevando le assenze scolastiche frequenti o taciute, la paura di andare a scuola, la chiusura, la mancanza di rapporti con i compagni, l’isolamento.

Secondo l’Istat oltre il 50% degli under 18 ha subito una prepotenza e le prepotenze sono più frequenti a 11-13 anni, quando i ragazzi della scuola media devono definirsi in maniera precisa: o si è “popolari” o si è “sfigati”.

Lo chiamiamo bullismo, un gioco perverso senza vincitori né vinti, in cui è difficile a volte distinguere tra vittima e carnefice. Il carnefice di oggi è stato la vittima di ieri, oppure è vittima in altre aree della vita, magari assiste continuamente a scenari di violenza in famiglia.

Il bullo spesso non sa spiegarsi il suo comportamento, fa il prepotente per divertirsi, per mettersi in mostra agli occhi degli altri: la vittima magari ha qualche atteggiamento antipatico oppure suscita gelosia per un’amicizia che ha, o suscita invidia per il suo successo, o personifica quelle caratteristiche di fragilità e debolezza che il bullo non vuole riconoscersi. Lui tende a umiliare, a “deumanizzare” la vittima e questo fa sì che anche altri oltrepassino i limiti e si accaniscano contro un compagno considerato quasi inferiore e contro cui sembra più lecito o meno grave esercitare violenza. Spesso la vittima viene colpevolizzata e “se le succede qualcosa vuol dire che se lo è meritato”.

La vittima d’altronde si colpevolizza anche da sola, come se qualche propria caratteristica potesse davvero giustificare le persecuzioni.

I due atteggiamenti sono complementari. C’è chi crede che pene esemplari possano dissuadere i prepotenti e chi invece la pensa diversamente. Molti studi sottolineano che gli interventi più efficaci sono quelli mirati a “rinforzare” la vittima, a darle il senso che non è più sola ad affrontare le cose, interventi che la aiutino a costruire  strumenti con cui gestire il bullo e le sue prepotenze. E che il tutto avvenga attraverso azioni integrate tra scuola, gruppo classe, famiglia, genitori, bulli e vittime.

In ultima analisi, la difficoltà di entrare in contatto con le proprie emozioni e riconoscere quelle degli altri e l’incapacità di esprimere i sentimenti con le parole sono la base su cui si sviluppa la prepotenza, ma sono aspetti che la vittima e il bullo hanno in comune, insieme alla difficoltà di fondo di entrambi di mettersi in relazione con gli altri.

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