The Astonishing non è un disco, bensì un’opera complessissima: per i Dream Theater mi spingo a dire la più ambiziosa dai tempi di “Metropolis Part II: Scenes From A Memory”, l’album con cui consegnarono al mondo una vera e propria pietra miliare (la seconda ‘almeno’ dopo ”Images & Words’‘). E già al primo ascolto – mi butto senza troppa paura di cadere – probabilmente il lavoro più ispirato dopo l’uscita sanguinosa dell’ex batterista e cofondatore Mike Portnoy, che se ne andò (esautorato) nel 2010 sbattendo la porta e consegnando, di fatto, il gruppo totalmente nelle mani del duo Petrucci-Rudess: una combo a volte funzionale, molte altre assai pericolosa e tediosa.
Il 13esimo episodio discografico dei Dream Theater – è curioso notarlo – segna anche il lasso di tempo maggiore rispetto all’uscita precedente (3 anni), cosa che non accadeva praticamente da una decade e mezza: conseguentemente al fatto che per la prima volta il gruppo ha bruscamente interrotto la tournée programmata per dedicarsi totalmente alla scrittura di questo disco che, qui lo dico e qui lo nego, tutto è fuorché convenzionale. The Astonishing ha bisogno di essere toccato con mano lentamente, cogliendone i tanti spunti e riferimenti cercando di collocare anche i momenti meno ispirati all’interno di un discorso che proseguirà dal vivo con una scenografia e delle novità (per gli spettatori) che ci dicono essere avveniristiche. Lo scenario, l’ambientazione, è quella ‘distopica’ di un mondo in sostanza appassito per via dell’abuso delle moderne tecnologie e delle tante guerre che a poco a poco lo hanno reso un un habitat tutt’altro che naturale: una tematica molto cara, sembrerebbe, anche ad altri gruppi per certi versi affini e che viene ben resa dalla discrasia tra il primo ed il secondo volume di quest’opera (doppia, appunto) che rimanda, nei suoni e nelle intenzioni, ad una specie di lotta tra il lato oscuro e quello ‘chiaro’ della forza.
Le 34 tracce qui presenti sono in buona parte il pretesto narrativo di una storia che passa attraverso pochi ineludibili passaggi: “Dystopian Overture”, il singolo apripista ”The Gift Of Music’‘, “A Better Life”, “A Life Left Behind”, “The Path That Divides”, “My Last Farewell”, “Our New World” e l’ultima omonima ”The Astonishing”. Ciò che stupisce in positivo rispetto al recente passato è anzitutto il fatto che pur con tutta la plasticità ed il manierismo di un gruppo che, volente o nolente, deve ‘fartela pesare’ stavolta l’abilità tecnica dei singoli componenti sembri viaggiare dritta al punto, al ritmo di uno spartito sì preciso ma non per questo scontato o stucchevole.
Chi ne guadagna (e tanto) è anzitutto l’ugola di James Labrie, che dopo quasi 30 anni di fedeli servigi lascia indietro il resto della combriccola salendo sugli scudi dalla prima all’ultima canzone: interpretando la parte in maniera impeccabile senza preoccuparsi, una volta tanto, di essere guardato a vista dagli altri. Nel mezzo, tanta carne al fuoco e arrangiamenti impeccabili, contaminati da un mix (duole dirlo) quasi mai all’altezza e da un eccesso di zelo che, potendo trasformare in un pizzico di coraggio in più, avrebbe reso questo album non certo perfetto, non il migliore in assoluto di una carriera comunque invidiabile ma forse, questo sì, uno dei primi cinque. Sarebbero bastate un paio di forbici ma da quell’orecchio, si sa, i Dream Theater non c’hanno mai sentito e, tutto sommato, va più che bene così: se si riesce a gettare il cuore oltre l’ostacolo e accettare di spendere piacevolmente un paio di giornate in compagnia di quest’operetta un po’ baffuta e un po’ pienotta, vedrete che alla fine diventerà una più che degna compagna di viaggio dei vostri trip mentali.
Evitate però di usare il navigatore, perchè di perdersi qui non si parla affatto: se invece cercate la strada di casa, allora quella sì è ben visibile. C’è un po’ di nebbia da spostare, qualche giro in più da fare, con la prospettiva però di un pranzo tra buoni amici: di quelli che alla fin fine, il conto vale la pena pagarlo. Se l’arte – per citare Frank Zappa – consiste nel produrre qualcosa che non abbia un valore e rivenderla a buon mercato, possiamo invece affermare che stavolta in compagnia dei Dream Theater abbiamo mangiato bene e tanto e che, stringi stringi, la mancia se la sono pure meritata.