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Ronald Reagan era solito ripetere che non c’è nulla come lo ‘show business’, l’industria del cinema e dell’intrattenimento. Reagan, cresciuto alla scuola dei western di John Ford, dei musical di Fred Astaire e Ginger Roger e della Hollywood del dopoguerra, nella campagna presidenziale recitava la parte dell’eroe, il paladino dei valori della grande America. Il nemico era il governo, l’establishment che aveva impoverito l’America e creato la recessione.

In politica estera, invece, il nemico era l’impero del male sovietico e il regime komeinista, che minacciava la felicità dei popoli liberi. Una retorica che all’indomani della rivoluzione iraniana e nel contesto della crisi degli ostaggi americani a Teheran ha funzionato benissimo. Tra le righe si leggeva infatti la profonda critica nei confronti di Jimmy Carter, un presidente democratico che aveva trascinato l’America nella crisi iraniana perché liberale, incapace di prendere decisioni importanti.

La battaglia ideologica, dunque, in quelle storiche elezioni americane si è combattuta anche su temi di politica estera mentre in politica interna Reagan introduceva l’economia neo liberista quale nuovo pilastro della società.

Oggi Donald Trump, miliardario e personaggio popolarissimo del reality tv, conduce una campagna elettorale che ha diversi punti di contatto con quella di Reagan. In primis Trump, come Reagan, non è un uomo di contenuti ma di spettacolo, non conosce la retorica dei grandi leader politici, parla attraverso slogan che sembrano usciti dagli spot pubblicitari. Impossibile stabilire esattamente quale sarà la sua politica interna, quella estera, o come vorrà gestire la spesa fiscale e così via. Questi sono dettagli che non interessano a nessuno, e forse ha ragione.

E’ impossibile nel sistema americano, e anche in quello democratico occidentale, rendere i politici responsabili per non aver fatto ciò che è stato promesso in campagna elettorale. Allora tanto vale eleggere qualcuno di cui ci si può fidare, qualcuno che la pensa come la maggior parte dei votanti, che parla come loro.

Trump come Reagan ha spiazzato il partito repubblicano con uno stile da spettacolo. Quello di Trump è il reality show. Se Reagan era l’eroe sul cavallo bianco che salvava la carovana presa d’assedio dagli indiani, Trump è Jerry Springer che scava nel marcio della società per fare pulizia. L’America tornerà grande, sostiene Trump, perché’ la ripuliremo della spazzatura degli immigrati. Una ‘derattizzazione’ che il candidato repubblicano farà pagare agli stessi topi. Tra gli slogan più popolari c’è infatti quello che dice che il muro lungo il confine con il Messico lo pagheranno i messicani.

In politica estera la retorica è identica a quella di Reagan, il presidente democratico è responsabile per il disastro medio-orientale, non è stato capace di difendere gli interessi americani ed adesso il terrorismo del fondamentalismo islamico è arrivato a casa nostra. La soluzione è però estrema: blocchiamo tutti i visti ai mussulmani, poi si vedrà cosa fare ma per prevenzione non facciamoli entrare in casa nostra. Questo in sintesi il messaggio di Trump.

A differenza di Reagan, Trump non ha bisogno di sponsor, e questo è il punto di maggior forza in una campagna decisamente anti-establishment. Ciò significa che Trump può dire ciò che vuole e minacciare di distruggere i vecchi sistemi di potere clientelare non solo di Washington ma anche di Wall Street. Ed è per questo che l’establishment trema.

La prossima settimana si vota nell’Iowa, un test fondamentale per prevedere chi vincerà la corsa alla Casa Bianca. Il semplice fatto che Trump sia arrivato fin qui ci deve far capire che il vecchio stile di far politica non funziona più, il sistema è marcio e chiunque ha i soldi per condurre una campagna su questo tema fa presa. Che poi il messaggio venga trasmesso attraverso slogan ‘non politically correct’ da un candidato apertamente narcisista con un pessimo taglio di capelli non importa. In fondo Obama fu votato nella convinzione che avrebbe smantellato il sistema per crearne uno nuovo, meno corrotto, più funzionale agli interessi della popolazione, una speranza andata in fumo già nel primo turno presidenziale.

Che Trump vinca questa campagna elettorale è irrilevante, il vento anti establishment ormai è diventato una bufera in America e prima o poi avrà la meglio, speriamo che ciò avvenga con un candidato di peso invece che con una star del reality.

 

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