Chi riconduce soltanto violenza e i campi di concentramento, la banalità del male e le rappresaglie naziste alla figura di Adolf Hitler vede soltanto la punta dell’iceberg, la superficie più facile da demonizzare. Ma se non se ne capiscono a fondo i meccanismi del consenso e le dinamiche di fedeltà e condivisione assoluta delle idee allora il fenomeno rimane soltanto collocabile alle forme, ai segni, alla svastica che fa paura soltanto a nominarla, figuriamoci a tracciarla. Il titolo linawertmulleriano Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (ricorda un po’ una cantilena jovanottesca, anche lui citato nella piece-tritacarne), tratto dall’omonimo romanzo di Massimiliano Parente (Mondadori), funambolico e iperbolico autore, intelligente, ficcante, capace di performance tra il serio velleitario e il leggero scherzoso lucido beffardo, ma non troppo (assimilabile, però in prosa, al poeta urbano Guido Catalano), viaggia su due binari che si rincorrono, si seguono, si affiancano, si incrociano con metodo e pericolo.
Da una parte considerazioni e ragionamenti sul senso e sul peso dell’arte contemporanea, quel discorso che parte dalla riproducibilità dell’arte di Benjamin, passando per Wahrol, aggiungendo Basquiat, decriptando Duchamp, defecando Manzoni, citando Cattelan, alludendo a Hirst, declassando Koons, sfrigolando Bacon, stilizzando Haring, cadendo assuefatti e stanchi in Bansky. Dall’altro quell’indicibile, insopportabile, inaudibile e inudibile, inconcepibile cognome di sei lettere che apre le porte della percezione del diavolo fattosi persona. Ancora oggi, anche nei nostri salotti ciarlieri più cinici e snob, trattare il tema “Hitler” come un hotspot qualsiasi risulta scorticante, bruciante, feroce.
E’ un tabù bello e buono, senza un tutù di ricamo attorno sotto il quale nascondersi come paravento di salvezza in corner. Nessuna concessione, nessuna parentesi, nessun se e nessun ma si possono affibbiare al piccolo ometto con ciuffo unto e baffetto sterile sotto le narici. Eppure. Eppure c’è chi lo fa, su carta, Parente appunto, a teatro con l’adattamento di Filippo Renda (lo avevamo apprezzato in “Shitz” con i suoi Idiot Savant) e Beppe Salmetti (scuola pungente Filodrammatici). In questo nostro piccolo mondo antico pulp, conformista, conservatore e retrogrado (le statue nude coperte in occasione della visita del leader iraniano a Roma) coraggiosa anche la scelta di Matteo Torterolo, direttore della rassegna “Apache” (all’interno del cartellone del Teatro Litta) che ci consegna sei nuove giovani produzioni acute e caustiche pronte a scardinarci e morderci. E non si tratta di essere provocatori in modo arido, di fare i controcorrenti perché fa trend e moda, perché il tweet topic tira se strizzi l’occhio allo spinto, al velenoso, al trash scandaloso.
Possiamo applicare le parole (che poi sono state altamente controproducenti) del compositore Karlheinz Stockhausen, dedicate all’11 settembre 2001, un piccolo Olocausto se vogliamo, che lo definì: “La più grande opera d’arte mai esistita”, alle idee che ruotano attorno al piccoletto austriaco che invase la Polonia. La società (civile?) si deve unanimemente schierare per la condanna, per il dissenso, per il disgusto; chi tenta di tergiversare, di cercare approfondimenti, non giustificazioni ma ricerche storiche, viene tacciato di collaborazionismo, di revisionismo, di essere un nemico del popolo ibseniano. Il “Grande dittatore”, imitato in infinite versione, è generatore automatico di polemiche infinite dove la maggioranza silente si schiera per un netto rifiuto da struzzo con la testa sotto la sabbia, da tre scimmiette. Non è una parodia, è un frullatore.
Abbracciando le tesi di Kershaw e le intuizioni di Fest, corposi studiosi e biografi del tiranno, Parente e i due scapigliati sulla scena immettono un terzo personaggio, l’artista più grande, appunto, a fare da sponda e triangolo giocando di rimbalzo con Hitler (e soprattutto la sua estetica) e con il magmatico universo dell’arte contemporanea. Se si annusa che è il marketing, la percezione, la possibilità, le aperture, più che la sostanza a far sì che un’opera o un artista abbia più o meno successo e riconoscibilità, allora dovremmo accettare l’escamotage dell’istigazione come spostamento della soglia, come lancio del cuore oltre l’ostacolo, come il cercare un nuovo pensiero avventurandosi in terreni vergini. Azzeccata, in questo filone interpretativo, anche la data di debutto della piece, il giorno successivo alla Giornata della Memoria. Si gioca su ciò che è veramente falso e il finto che potrebbe essere reale.
Un artista, il protagonista Max (come il nome del romanziere) Fontana (come il concettuale Lucio) che ha fatto della propria vita un’opera d’arte, quello che la gente comune ha paura di fare con le proprie grigie esistenze fatte di consuetudini e noie sparse. Renda (sul palco a creare, vomitare sul telo) e Salmetti (regista con il copione e tutti i personaggi femminili di contorno), e un chitarrista (Tano Mongelli, originale chansonnier da voce pastosa da osteria fumosa) su chaise longue da psicoterapeuta, sono cialtroneschi ed euforici, sopra le righe e cartoni animati, si muovono dentro il play con la giusta arrogante disinvoltura e sfacciataggine irriverente, debordanti, arruffoni e arruffati, infastidenti, eccessivi, fumettistici. O li ami o li odi. Un vago sentore di “Insulti al pubblico” di Peter Handke. Sono irriverenti come Cruciani de La Zanzara, hungry (ma anche hangry) and foolish, puk shakespeariani sublimi nel loro caravanserraglio di trovate inquietanti e volgari, smisurati e smodati come Antonio Rezza (loro guru), sono un mix tra gli Skiantos e gli Squallor, palleggiano sulle macerie di Sandra e Raimondo (gli sposini d’Italia della quarta età), tirano fuori falli finti ed i propri, massacrano i luoghi comuni (anche “politicamente scorretto” è per loro limitativo) di melassa e buonismo sputando in egual modo su Auschwitz, i migranti come sulla fame nel mondo. Sono brutti, sporchi e cattivi. Senza Morricone, però.
Visto alla Cavallerizza, Milano, il 28 gennaio 2016