L’Iraq ha una grande diga sul Tigri poco a monte di Mosul. Costruita negli anni 80 del secolo scorso da un consorzio italo-tedesco, è alta 113 metri, invasa 11 miliardi di metri cubi d’acqua e installa circa mille Mega Watt di potenza idroelettrica. Nel 2011, uno scenario estremo dell’U.S. Corps of Engineers (Usace, Corpo del Genio Militare degli Stati Uniti) prevedeva, in caso di crollo totale e subitaneo, che l’onda di sommersione potesse raggiungere un tirante di 20 metri a Mosul e propagarsi a valle fino a Bagdad, che verrebbe inondata con tiranti fino a 4 metri e mezzo. Mosul ha quasi 2 milioni di abitanti, mentre a Bagdad vivono 7 milioni di persone: le vittime potrebbero arrivare a mezzo milione.
La diga di Mosul è una diga in terra, la quarta più grande per invaso del Medio Oriente. Fin dalla sua costruzione ha un problema endemico: è stata fondata su una roccia carsica, con prevalenza di gessi, una roccia che si scioglie in acqua. Per questo fu prevista una galleria di aggiotaggio dove la continua iniezione di malte sigillanti potesse garantire la stabilità dell’ammasso sovrastante. Fin da subito, ci si accorse dell’instabilità intrinseca dovuta a perdite endemiche di sigillante e deviazione del flusso, e ci si rese conto che l’operazione di consolidamento doveva essere ripetuta periodicamente tramite una continua manutenzione. Ne sono già state iniettate 50 mila tonnellate con scarsi risultati: il flusso di filtrazione si sposta ma non si arresta, sciogliendo sempre più rapidamente i gessi. Già nel 2006, un rapporto di Usace metteva in guardia il governo americano sulla serietà della situazione: «In termini di potenziale erosione interna della fondazione, la diga di Mosul Dam è la più pericolosa del mondo».
La diga è un punto focale del conflitto: fu conquistata dallo Stato Islamico nell’agosto del 2104 e ripresa dai Peshmerga curdi dopo poche settimane di combattimenti cruenti. Una nota della Reuters rende noto che, a causa del conflitto, l’iniezione continua necessaria a ridurre il rischio di crollo è stata interrotta e la situazione si sta rapidamente deteriorando. Il previsto intervento italiano di messa in sicurezza, in base al lucroso ancorché coraggioso bando internazionale emesso dal governo Usa, è ancora in fase di definizione. Anche se il progetto è forse meno temerario di quanto paventato, poiché in un’intervista telefonica al Daily Mail, il signor Rasheed, consigliere del ministro iracheno delle risorse idriche Moshin al-Shammari, ha dichiarato che «There is no need for Italian forces to protect the dam». Nel frattempo, la diga, quasi vuota in autunno, si sta riempiendo e il Tenente Generale Mac Farland ha dichiarato pochi giorni fa che, giacché il pericolo di un crollo non può più essere ignorato, l’esercizio Usa ha messo a punto di emergenza per fronteggiare un eventuale disastro. Si spera che l’esperienza di Katrina abbia migliorato le capacità statunitensi di affrontare emergenze a grande scala come quella che si potrebbe presentare.
Il bacino della mezzaluna fertile in Mesopotamia, costituito da Tigri a nord ed Eufrate a sud e condiviso da Iraq, Turchia e Syria, da sempre è soggetto a conflitti sull’uso dell’acqua. Il conflitto si è acuito a partire dagli anni ’60, in seguito al progetto turco (idroelettrico e irriguo) noto come Progetto GAP, che prevedeva la costruzione di ben 22 dighe. Nel 2008 fu istituito il Comitato Trilaterale (Iraq, Turchia e Syria) per la gestione delle risorse idriche e nel 2009 la Turchia accettò di elevare il rilascio minimo (vitale) da 450 a 500 metri cubi al secondo. Lettera morta: la situazione odierna non lascia spazio a mediazioni. E il problema dell’acqua è uno dei più importanti nella gestione dell’emergenza di milioni di rifugiati anche in Giordania e in Libano.