Dopo una grande apertura che sembra voler ricalcare i maestosi ed innevati spazi naturali in cui veniamo inizialmente immersi, esaltati splendidamente dalla pastosità delle immagini e dal calore avvolgente della grana della pellicola 70mm, arriva l’intuizione sorprendente di questa mente creativa e mai sazia di spettacolo che, nonostante le grandiose possibilità del formato più aperto e profondo dell’Ultra Panavision, decide di confinare le successive due ore e mezza di pellicola quasi interamente all’interno delle quattro pareti di un rifugio nel Wyoming. Cosa si potrà mai mettere in scena in un unico luogo per tutto questo tempo?!? Se ti chiami Quentin Tarantino la risposta è: tutto, puoi fare semplicemente “cinema”!
Stavolta siamo lontani dalle scorribande violente di Django, dall’azione continua e frenetica di Kill Bill e persino dalla fantasiosa rivisitazione storica di Bastardi senza gloria; si torna alle origini, a quell’esordio folgorante che fu Le iene ed assistiamo alla rielaborazione di tutti i suoi tipici tic visivi e narrativi che si fondono con la sua cultura letteraria e cinematografica (che spazia da Agatha Christie a La cosa di Carpenter, passando per il western classico, l’horror e il noir), per poi dare vita ad un fiorire di situazioni singolari e bizzarre condite però con quel gusto unico ed inimitabile che porta il suo marchio di fabbrica.
È incredibile vedere come un’impostazione così teatrale, così dilatata e felpata nei tempi, possa diventare qualcosa di estremamente cinematografico, incalzante e coinvolgente e di come le quasi tre ore di film possano volare via in un baleno. Tarantino incornicia i suoi personaggi all’interno dell’angusto spazio con una cura meticolosa, li delinea minuziosamente controllando ogni singola movenza ed ogni scambio di occhiate, usa la parola come solo uno chef stellato saprebbe fare con le sue pietanze e dimostra una padronanza del mezzo che impressiona perché sfrutta ogni angolazione immaginabile, ogni prospettiva e profondità di campo, ogni lunghezza focale possibile. L’alchimia che ne consegue è un’orchestra perfettamente coordinata che suona cinema. Si respira un’atmosfera elettrizzante carica di tensione palpabile, di suspense che continua a crescere, rotta poi da momenti volutamente ironici ed istrionici che non fanno altro che renderci ancora più partecipi di questo gioco altalenante architettato ad hoc per divertirci e tenerci sempre più sul fuoco.
Tarantino dimostra di aver raggiunto una maturità quasi totale avendo davvero incamerato le lezioni di anni di esperienza e palesando tutto questo in ogni singolo dettaglio del film; già in passato, infatti, si era dimostrato spietato verso i suoi personaggi, uomini e donne disposti ad uccidere, persone simpatiche e spregevoli al contempo, ma qui sembra andare ancora oltre ed essere ancora più brutale. Già dal titolo infatti appare evidente: non c’è in nessuno di questi “odiosi otto” personaggi qualcuno da salvare o qualcuno con cui schierarsi; in questa ottava mirabolante avventura il desiderio che più di ogni altro anima l’esuberante regista di Knoxville è quello di riuscire a trasfigurare l’universalità della guerra all’interno di quattro claustrofobiche pareti, con tutte le ripercussioni e le implicazioni politiche, geografiche, sessuali e razziali che questa comporti.
Dietro alle goliardiche e sopraffine interpretazioni da parte di tutto il cast, ai travestimenti così pittorescamente camaleontici e alla colonna sonora ovattata ma penetrante di Morricone che suona davvero come il Magnificat finale, si nasconde inoltre un sottotesto ribollente di una pellicola che scava sugli aspetti peggiori della natura umana e, al termine del film, quando il Quentin giocherellone e burlone sembra chiedere: “Allora, ti sei divertito?”, davanti a questo grande spettacolo che ha costruito, penso che la risposta migliore da dare sia: “Sì, mi sono anche divertito un mondo!”.