Il procuratore di Arezzo Roberto Rossi ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex presidente Giuseppe Fornasari, l’ex ad Luca Bronchi e per il dirigente Davide Canestri. L’udienza davanti al gup del tribunale di Arezzo è stata fissata per il prossimo 10 marzo
Ostacolo agli organi di vigilanza. C’è un primo step giudiziario nell’affaire Banca Etruria. Il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare dell’inchiesta, ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex presidente Giuseppe Fornasari, l’ex ad Luca Bronchi e per il dirigente Davide Canestri. Per tutti l’accusa è di ostacolo alla vigilanza. L’udienza davanti al gup del tribunale di Arezzo è stata fissata per il prossimo 10 marzo. Intanto, secondo alcuni quotidiani, un mese prima del decreto Salva banche molti conti correnti dell’istituto toscano furono “svuotati”. L’ipotesi è che quindi qualcuno possa aver avvertito alcuni clienti privilegiati del rischio di perdere i propri risparmi.
Inchiesta nata dopo relazione Bankitalia
Lo stesso Rossi ha invece rinotificato l’avviso di chiusura indagini a Fornasari, Bronchi, oltre che all’ex presidente e all’ex ad della società Methorios, Fabio Palumbo ed Ernesto Meocci. Dall’inchiesta uscirebbe invece Lorenzo Rosi, l’ultimo presidente della banca, che invece è indagato nel terzo fascicolo relativo al conflitto di interessi, insieme all’ex consigliere Luciano Nataloni. L’inchiesta su Fornasari, Bronchi e Canestri, venne aperta dalla procura aretina alla fine del 2013, dopo che a Rossi arrivò la relazione degli ispettori della Banca d’Italia che da poco avevano concluso il loro lavoro nella sede dell’istituto aretino in via Calamandrei. Il rapporto venne trasmesso alla procura perché, secondo gli ispettori, potevano esserci state criticità di rilevanza penale nel bilancio 2012.
Qualche mese più tardi venne aperto il secondo fascicolo: gli ultimi due presidenti, Fornasari e Rosi, oltre a Bronchi, vennero indagati per alcune fatture che, per la procura, erano state fatte per operazioni inesistenti. Dopo il commissariamento della banca, nel febbraio 2015, la procura ha poi aperto un terzo filone d’inchiesta che nel gennaio scorso ha portato a 14 perquisizioni in altrettante società che avrebbero ricevuto finanziamenti dall’istituto di via Calamandrei quando alla presidenza c’era Rosi e nel consiglio, tra gli altri, anche Nataloni. Entrambi risultano indagati. Su questa parte dell’inchiesta la procura sta ancora lavorando sulla documentazione sequestrata, mentre negli uffici del procuratore Rossi continuano ad arrivare gli esposti delle associazioni dei consumatori e di singoli obbligazionisti dopo il decreto salva-banche. Gli esposti sono riuniti in un quarto fascicolo dell’inchiesta aperto con l’ipotesi del reato di truffa.
Lunedì si decide per insolvenza
Lunedì prossimo, invece, davanti al giudice del tribunale civile di Arezzo verrà discusso il ricorso presentato dal commissario liquidatore di Banca Etruria Giuseppe Santoni per insolvenza. Se il tribunale dovesse decidere in questo senso, il passo successivo sarebbe la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica Rossi che potrebbe aprire un quinto filone d’inchiesta – quello per bancarotta – e prendere provvedimenti nei confronti dell’ultimo consiglio di amministrazione dell’istituto, quello presieduto da Rosi, dove tra gli altri era vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del ministro per le Riforme, Maria Elena. Proprio sull’ipotesi che alcuni correntisti possano essere stati messi sull’avviso ci sono le conclusioni del commissario. Nella sua relazione Santoni evidenzia che “la situazione di liquidità si presenta assai critica, atteso che secondo quanto emerge dalle informazioni dei commissari straordinari, le riserve liquide sono inadeguate, per effetto dei deflussi dei fondi che hanno interessato la banca. In particolare il saldo netto di liquidità alla data del 18 novembre scorso pari a 335 milioni, il 4,6 per cento del totale attivo, è diminuito di euro 288 milioni da inizio ottobre. La situazione è fortemente aggravata dall’elevato grado di concentrazione della raccolta, che espone la banca al rischio del ritiro dei depositi anche di singoli depositanti (i primi 16 clienti detengono circa il 16 per cento)”.