Politica

Lotta alla povertà: il ministro Poletti che voleva abolirla. Per scherzo

A fronte dell’improvvisa attenzione manifestata dal governo Renzi, le considerazioni riguardo alla questione “povertà in Italia” svolte da Chiara Saraceno e pubblicate su la Voce info, poi riprese da questo sito, sono del tutto condivisibili. Solo che meritano qualche ulteriore annotazione. A partire dalla sottolineatura dell’abituale, sospetta, maldestraggine del ministro Giuliano Poletti, con il suo strombazzato “Piano nazionale di contrasto” del fenomeno che va aggravandosi.

Il punto di partenza di ogni ragionamento sulla “disuguaglianza ingiusta” detta che la povertà è sintomo di una grave disfunzione della società. Di converso, è ricco un Paese non con un cospicuo numero di abbienti, bensì dove il numero dei poveri è limitato. Sempre intendendo con “povertà” due condizioni distinte: quella relativa e quella assoluta. Secondo la definizione datane da un personaggio non certo in odore di sinistrismo populista – l’ex direttore di Confindustria Innocenzo Cipolletta – in quest’ultimo caso “povero” è «chi non riesce a provvedere ad alcune funzioni vitali che gli assicurino la sopravvivenza»; nel primo «possono essere considerati poveri quegli individui e quelle famiglie le cui risorse, nel tempo, si riducono notevolmente rispetto alle risorse che sono possedute dagli individui e dalle famiglie medie nella comunità in cui essi vivono». Se le famiglie residenti in condizione di povertà relativa – stante il Rapporto Istat 2015 sul 2014, da cui la Saraceno attinge i dati – sono il 10,3% del totale nazionale, quella relativa riguarda il 5,7% e assomma circa 4,102 milioni di nostri concittadini. Nella lotta alle disuguaglianze relative (7,9 milioni circa di persone interessate) le armi da mettere in campo sono quelle di una politica industriale che favorisca la ripresa (non il temporaneo drogaggio del mercato del lavoro, quale quello attuato dal Jobs Act governativo); nel contrasto della deprivazione assoluta lo strumento non può essere altro che un provvedimento strutturale, come scriveva nel 1946 – nel suo pamphlet “Abolire la miseria” – Ernesto Rossi (sì, il fiorentino “democratico ribelle”, a Ventotene con Spinelli e Colorni, che Matteo Renzi ha dimenticato di citare in recenti commemorazioni-vetrina).

Provvedimento che a livello europeo oggi significa ragionare nella logica del “reddito di cittadinanza” (idea che risale alla fine del Settecento; ed è legata al nome del democratico radicale Thomas Paine. Secondo una nota definizione, «un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite»); terminologia che il Poletti cassa, preferendo parlarne in termini di “reddito minimo”. Un aspetto terminologico che non sembra casuale. Come non casuale risulta la scelta del target cui riferirsi: 320mila famiglie, contro le 1,470milioni censite nel 2014. Mentre più simbolica che risolutiva sembra la somma prevista per lenire le sofferenza di questa fetta pur parzialissima della deprivazione sociale: 320 euro mensili, a fronte di proiezioni su cui si basa un progetto di legge in via di presentazione nel consiglio di Regione Liguria, che individuano almeno nel doppio (7mila euro annui) la cifra che raggiunge la soglia necessaria per invertire la tendenza.

Ma, in questo caso, si tratta di ridisegnare l’intero impianto del sistema di garanzie (welfare nazionale), non di ricadere nel solito giochino delle paghette da 80 euro e relativi multipli (320); apparentemente dimostrative, sostanzialmente elettoralistiche.

Con ciò si arriva al punto dolente: l’uso altamente sospetto (acquisizione manipolatoria del consenso) della sofferenza e del bisogno. Nella più indecente rivisitazione del paternalismo democristiano e delle pratiche caritative come valvola di scarico del risentimento, come controllo sociale. A conferma, se ce ne fosse bisogno, della disattenzione attuale nei confronti di una forbice della diseguaglianza che si allarga pericolosamente e a dismisura. L’indifferenza a quanto dichiarava Ernesto Rossi settant’anni fa, proclamando la guerra alla povertà assoluta: «La miseria è una malattia infettiva, giacché la causa maggiore della miseria è la miseria stessa».