Nel motore dell’Europa sta bruciando un dilemma antico e complesso tra la salvaguardia della produzione industriale dell’auto e la tutela della salute pubblica. La scintilla l’ha data lo scandalo dei diesel Volkswagen da cui è partito un lungo braccio di ferro in seno al Parlamento europeo risolto con una soluzione normativa di compromesso, con i produttori che si piegano all’obbligo delle omologazioni su strada a fronte di limiti emissivi molto meno stretti di quelli auspicati. E’ un grande regalo alle lobby dell’auto o l’unica soluzione realistica per salvare l’industria, consentendole di produrre senza più ricorrere a dati falsati? Lo abbiamo chiesto a chi oggi, in Italia, urla più forte allo “scandalo”, il presidente dei Verdi Angelo Bonelli. “E’ un atto immorale dell’Europa contro il diritto alla salute dei suoi cittadini”, risponde l’ambientalista che da nove anni, tra grandi fatiche, ha rinunciato all’auto e vede in questa soluzione del dilemma una sconfitta europea (e anche italiana).
Perché questo accordo non va bene?
Iniziamo col dire che non ha introdotto gli anticorpi al problema originario. Dopo il dieselgate si pensava ad un’agenzia di controllo mentre si andrà avanti con i test di laboratorio e di strada certificati da società pagate dai produttori, in evidente conflitto di interessi. Il punto è che le industrie automobilistiche europee non vogliono investire in innovazione tecnologica nella filiera del processo produttivo perché servono risorse e l’Europa si è piegata alle loro ragioni.
Ma com’è andata poi questa storia?
Si trattava di fare una scelta di campo. I socialisti, i verdi e i grillini che hanno detto “no” all’innalzamento delle soglie non sono dei sovversivi impazziti, non volevano abbattere o boicottare il sistema industriale automobilistico europeo. Al Parlamento abbiamo posto un problema di coerenza e di visione. Non più di sette mesi fa l’Agenzia europea per l’Ambiente ha reso pubblico uno studio scientifico drammatico che parla di oltre 400mila morti in Europa per smog, con una costo economico-sociale stimato intorno ai 900 miliardi l’anno. Per l’Italia di oltre 65mila morti premature e danni intorno ai 50 miliardi di euro. Questi sono i costi economici dall’inquinamento cui il traffico veicolare contribuisce in maniera rilevante.
E quindi?
Quindi la scelta di legare lo sviluppo economico di un continente alla possibilità di inquinare di più è pura follia, significa portarlo verso un baratro. Il Parlamento europeo ha fatto una scelta che definirei “immorale” prima che economica. Allargando i tetti emissivi e rinunciando alla possibilità di una conversione tecnologica dell’industria dell’auto ha espresso un voto contro i suoi cittadini, contro il loro sacrosanto diritto alla salute.
Per altri era l’unico compromesso realistico per salvare i posti di lavoro e un pilastro dell’economia
Proprio gli Stati Uniti ci dimostrano il contrario, che è possibile produrre auto a basse emissioni per le masse e servire il mercato con limiti inferiori di un quarto a quelli che l’Europa si sta dando. Gli Stati Uniti sono riusciti a imporli ai produttori, e parliamo della patria del liberismo, dove non c’è un governo ecologista integralista e radicale.
Ma nello specifico il problema è di quantità?
Il voto di ieri ha di fatto raddoppiato il valore di emissione di NOx che passano da 80 a 168 mg per chilometro percorso, un limite quattro volte superiore a quello in vigore negli Usa dove, per altro, lo scandalo dei produttori europei è esploso.
L’alternativa possibile?
Parliamo dell’Italia, che proprio sull’industria automobilistica dimostra il fallimento delle sue politiche. Per decenni ci hanno raccontato che “rottamare” era la soluzione per garantire una migliore qualità della vita e dell’aria. Noi verdi dicevamo che era una stronzata che serviva solo a far vendere più macchine e dare soldi alla Fiat. E infatti 6 miliardi di fondi pubblici sono andati nelle sue casse per poi fare lo scherzetto di portare l’azienda fuori dall’Italia.
Per dire che…
Che se quelle risorse avessero favorito veri processi di innovazione tecnologica e a rendere più efficiente il sistema produttivo non ci troveremmo in questa situazione, con le nostre grandi città che devono mettere blocchi al traffico e intere zone dell’Italia congestionate dalle polveri. Per non dire degli effetti sulla salute che colpiscono le persone più deboli, specie bambini, anziani e malati.
Ma i governi cosa possono fare?
Possono molto e noi dovremmo saperlo. Quando Marchionne è andato negli Usa a fare l’investimento sulla Chrysler perché era indebitata, Obama chiuse un accordo con la Fiat in cui c’era un patto di produzione di un milione di auto elettriche per gli Usa. Quel protocollo è poi entrato in maniera concreta nel piano industriale che poi ha portato alla Fca. Ora, il governo italiano come intende orientare le politiche industriali? La Merkel persegue un interesse nazionale, noi non facciamo neppure quello. Qui dobbiamo stabilire se è il mercato che decide il futuro della vita di centinaia di milioni di europei o se è la politica e la democrazia. I governi hanno deciso di andare da un’altra parte ma l’alternativa c’era e c’è.
Cosa avrebbero fatto le industrie di fronte a tetti che, probabilmente, non sono in grado di rispettare?
Sarebbero state costrette a concentrare risorse nello sviluppo, verso produzioni neppure “sostenibili” ma in una vera e propria conversione ecologica di modelli produttivi che è anche la grande sfida di qualità che l’Europa può lanciare all’Oriente, dove ci sono produzioni che non rispettano criteri e standard ambientali. Oggi è questa la vera sfida economica globale: quella di fare produzioni di qualità che siano all’altezza della sfida ai mutamenti climatici. Anche i cinesi vivono il dramma delle polveri sottili e anche loro non hanno altra soluzione che immettere sul mercato prodotti a basso impatto ambientale. Per questo l’alternativa a tutto questo per noi avrebbe anche un ritorno economico e occupazionale.
La strada del futuro?
Con la crisi ecologica delle città, non solo italiane, il diritto alla mobilità dovrebbe essere garantito investendo sempre di più in mezzi pubblici e attraverso l’auto pulita al 100%, sia essa elettrica o ibrida. Il consumatore è pronto, se solo non lo massacrassero. Conosco tanta gente che vorrebbe comprare l’auto elettrica ma non è competitiva sul piano economico e poi dove la ricaricano?
Ma c’è un posto dove funziona?
In California, ad esempio, si sono organizzati. Hanno città molto inquinate e si sono organizzati con migliaia di colonnine per la auto ad idrogeno. Ho presentato il mio libro (Good Morning Diossina, ndr) all’Università di Santa Monica a ottobre e ho visto con grande piacere che ci sono i distributori di idrogena insieme a quelli del carburante. Ben visibili, organizzate nella città. Certo loro sono molto avanti, noi siamo indietro. Se le amministrazioni non riorganizzano le città con le colonnine per le ricariche è evidente che stiamo parlando di preistoria.
Ma basta questo?
No serve molto molto altro. Il tema della mobilità pubblica deve tornare centrale, bisogna riorganizzare le connessioni tra città e periferie in modo che al che prende il mezzo pubblico farlo risulti una cosa conveniente, utile e magari gradevole. Ma non si fa. Un esempio? Nonostante una legge lo proibisca, abbiamo ancora oggi lottizzazioni per le quali vengono fatte case per 20-30mila persone e non ci arriva neppure un autobus. Ma come li portiamo i figli a scuola? Come andiamo al lavoro o a trovare i parenti?
Per lasciare l’auto bisogna passare anche per un cambiamento culturale
Certo, è possibile. Io l’ho fatto, con grande fatica in Italia. Da nove anni non ho più l’auto. L’ho deciso nel 2007 quando, andando da Ostia dove vivo a Roma, mi sono beccato una multa perché andavo a 63 km orari. Mi incazzai così tanto e lì capii che ero schiavo dell’auto. Da allora uso solo mezzi pubblici. Dopo una fase di grande difficoltà mi sento finalmente un uomo libero. Certo mi scontro ogni giorno con l’inefficienza del servizio pubblico dei trasporti dalla mia città, Roma, che in confronto a Parigi, Berlino e Madrid è roba da quarto mondo. Quindi si, serve un cambio di cultura. Ma noi lo favoriamo solo se c’è un grande investimento dello Stato e delle Regioni nel riorganizzare le città anche dal punto di vista urbanistico sul trasporto pubblico. Questo non c’è, il trasporto in Italia è concepito ancora in modo antiquato.
E allora come si fa?
Resistendo. La mattina prendo la Ostia-Roma ed è un disastro. La gente si sveglia e arriva a destinazione già esaurita perché sa quando parte (se parte) e non quando torna. A Berlino e Madrid, dove si è vissuta una crisi paragonabile alla nostra, non è così. I servizi della mobilità sono ben organizzati e l’auto l’alternativa al mezzo pubblico. Non l’unico mezzo. Ma è una battaglia che ci vede soli. L’Europa va da un’altra parte.