“Mendicare o regnare, che importa? Lascia il resto agli dei” (Cesare Pavese)
“Non sei senza ambizione, ma ti manca la crudeltà che deve accompagnarla” (“Macbeth”)
“Voglio di più e non mi basta mai” (Jovanotti)
Inquietantemente divertente. Spassosamente pauroso. Soprattutto come deriva del capitalismo post moderno, della concezione, del rispetto e della considerazione della vita umana, dell’accettazione della normale violenza sugli altri come passepartout per l’accumulo avido della roba. I Filodrammatici, Bruno Fornasari, regia sprintosa e traduzione agile, e Tommaso Amadio a dare corpo e sostanza sulla scena, pescano ancora a piene mani in quell’Inghilterra capace di bombette e punk, di regina con tanto di saluto da manichino e pub all’ultima pinta, della City da manager a sei zeri e Camden Town. Terra di contraddizioni tra una capitale votata al futuro, città proletarie, slang aggressivo e smorzato duro.
Il londinese Philip Ridley (uomo rinascimentale: pittore, drammaturgo, cineasta, scrittore di favole noir per bambini) è un suo figlio, i suoi testi grondano una placida insicurezza di fondo, un tranquillo week end di paura, una calma apparente di tensione ed elettricità costante. Allarmante e preoccupante in “Parassiti fotonici” l’affresco di questa società del futuro (ci siamo molto vicini, non è fantascienza, non è Asimov) dove quelli che si possono comprare un appartamento sono russi o americani o autori televisivi. Tutti i restanti sono costretti a vagabondare nei campi, ad accendersi falò (non delle vanità), clochard che girano, caracollano come gli zombie di George Romero alla ricerca di un niente per arrivare a domani. Chiamali senzatetto, chiamali barboni.
Una giovane coppia precaria fa parte di quella middle class che non esiste più, spazzata via dalla crisi, compressa dalle banche, dai mutui, dalle multinazionali, dal costo del petrolio, dalle centinaia di guerre sparse qua e là. La forbice si è allargata, i ricchi sono sempre più danarosi, i poveri sempre più deperiti. Ma in loro soccorso arriva la Signora Dee (come Devil, a metà strada tra Mary Poppins e Crudelia Demon) che ha per loro una soluzione plausibile: poter avere una bella casa gratuitamente alla periferia della città, rimetterla a nuovo attirando così compratori per le altre villette a schiera e così risollevare un quartiere abbandonato e decentrato. Sembra tutto rose e fiori ma aleggia del paranormale: la Signora Dee (Elisabetta Torlasco con la giusta dose di cattiveria ingannatoria e avvolgente persuasione) conosce la coppia come le proprie tasche, sembra che i due siano stati spiati fin da piccoli dalla mole di dettagli che l’immobiliarista è a conoscenza dei due.
Attorno alla casa si annidano gli homeless, chiamati “restauratori”, perché attraverso la loro eliminazione è possibile accedere ai propri desideri materiali, arredamento, macchine, vestiario. I barboni eliminati, attraverso una archetto elettrificato (bacchetta magica come nelle migliori fiabe) si trasformano in beni di lusso: miracoli moderni. I barboni sono i rifiuti da dissolvere e più ne mandiamo al macero più la società è migliore e pulita. L’etica va a farsi benedire a beneficio della roba da ottenere.
L’iniziale senso di colpa diviene poi scelta sempre più consapevole con l’alibi del “lo facciamo per nostro figlio”. E qui si apre un Macbeth moderno. Cosa saresti disposto a fare per la tua felicità? This is the question. Il marito (lo stesso Amadio, duttile, versatile, pronto, scoppiettante) è un tipo coscienzioso che non farebbe niente fuori legge, ma è la compagna (Federica Castellini, vera Lady Macbeth nerissima, ha cadenze brillanti e tempi comici estrosi) che, al netto di moralismi, lo spinge, incita e istiga a reati e delitti per una causa più alta. Il piccolo figlio, che in Macbeth all’inizio è appena deceduto, qui ci dicono che ha un anno, ma o è tra le braccia di Morfeo oppure non può essere toccato, avvicinato o coccolato dagli amici dei genitori come se fosse già defunto e al suo posto fosse stato messo un fantoccio posticcio. Forse la contropartita per aver venduto l’anima al diavolo.
Testo fitto di dettagli che sembrano di contorno ma che poi assumono rilevanza: i coniugi si chiamano Swift come l’autore de “I viaggi di Gulliver” (anche qui c’è un mondo scombinato, ricco di stranezze “normali”), il protagonista si chiama Oliver (come il piccolo povero Twist). Bravissimi, per velocità e incroci, scambi e battute rapidissime, Amadio e la Castellini nelle infinite variazioni di ruolo e tonalità vocali per impersonare tutti i vicini di casa giunti alla festa di compleanno del bimbo. Ma, si sa, il diavolo esige continuamente il suo obolo e la tranquillità non fa parte del dna dell’uomo: “La solitudine è il campo da gioco di Satana”, diceva Nabokov, quello di Lolita.
Visto al Teatro Filodrammatici, Milano, il 23 gennaio 2016