Giulio Regeni era uno studioso scomodo, da tenere sott’occhio, da sorvegliare, e perfino punire, visto come sono andate le cose. Era scomodo, dava fastidio, perché si occupava di quei soggetti di cui nessuno vuole più parlare: i lavoratori.
Sono decenni che, a livello globale, si producono tonnellate di libri e articoli per convincerci che i lavoratori non esistono più, che il lavoro è morto, perché ora siamo tutti “collaboratori” felici dei padroni…pardon, dei “datori di lavoro”. Scrivere dei lavoratori oggi, dei loro diritti, del loro sfruttamento e delle loro lotte e scioperi significa, prima di tutto, essere emarginati dal cosiddetto “mondo accademico” (salvo rare eccezioni, ovviamente) che preferisce, nella migliore delle ipotesi, disquisire di aria fritta, piuttosto che contribuire alla comprensione o alla trasformazione della realtà.
Ma in questo mondo, piombato nella più grave crisi economica e politica della sua storia, scrivere dei lavoratori significa anche attirare l’attenzione delle polizie e dai servizi segreti di mezzo mondo. In Egitto più che altrove. Perché in nessun altro paese del mondo si sono registrate mobilitazioni operaie così imponenti e vaste come nell’Egitto degli ultimi anni, prima, durante e dopo la sollevazione del 2011, fino a quando non è scesa la notte con il colpo di stato del generale al-Sisi, “amico personale” di Matteo Renzi.
Checché ne dicano i fan della “rivoluzione Facebook”, quel che è successo in Nord Africa e in Medio Oriente, nel 2011, è stata una gigantesca mobilitazione sociale e operaia per chiedere giustizia sociale, eguaglianza, dignità. Non si chiedeva cioè soltanto un cambio di governo per far funzionare meglio il capitalismo (come ci hanno spiegato da questa parte del mondo), si chiedeva molto di più, si voleva una società e un mondo migliore, più giusto, a misura di lavoratore.
Per avere una conferma di ciò basterebbe osservare quel che è accaduto in Tunisia qualche giorno fa, dove migliaia di giovani, poveri, lavoratori e disoccupati sono tornati a far tremare le strade e le piazze tunisine, chiedendo giustizia sociale. Per capire questa banale verità, che viene sistematicamente occultata dai media e dai politici, basterebbe leggere gli scritti di Giulio Regeni, in cui si racconta di questa vitalità, di questa voglia di lotta mai sopita dei lavoratori e delle lavoratrici egiziani, dittatura o non dittatura, al-Sisi o non al-Sisi.
Giulio è morto per questo, perché era un vero ricercatore, uno di quelli che vogliono andare a fondo alle cose, che non si accontentano di argomenti facili per assicurarsi una carriera sprint, uno di quelli che vogliono essere protagonisti, con i loro studi, della trasformazione radicale della società. Giulio voleva rappresentare coloro che vogliono nasconderci, a tutti i costi: i lavoratori. Pensateci un attimo: come è possibile che ogni volta che in tv si parla dei paesi arabi non ci mostrano mai i volti delle persone comuni nel contesto della loro vita quotidiana? Com’è possibile che non riusciamo mai a leggere articoli sui lavoratori e sulle lavoratrici in Egitto, in Tunisia, in Siria? Eppure sono milioni. Eppure sono la maggioranza. Come qui da noi.
Chi ha battuto le strade del Cairo, chi ha visto all’opera gli apparati di sicurezza egiziani, chi ricorda i teppisti organizzati e mandati in piazza o nelle fabbriche a picchiare manifestanti o scioperanti, chi ha amici egiziani che sono scomparsi o finiti in galera, in Egitto così come in Tunisia o in Yemen, magari dopo aver subito processi farsa, non ha difficoltà a comprendere quel che è accaduto a Giulio.
Noi sappiamo chi sono i mandanti del suo assassinio. E sappiamo che hanno amici molto influenti qui da noi.
Ciao, Giulio!