Il 9 novembre 1989 segna la caduta del muro di Berlino ed il crollo della ‘minaccia comunista’, dando inizio ad una serie di grandi mutazioni politiche nel mondo intero. In Africa come altrove, l’appartenenza ai blocchi della guerra fredda perde ogni significato e le terre sotto antica influenza sovietica e cubana cercano ormai nuovi assetti e nuovi padrini. Ma anche gli amici degli occidentali sono messi a dura prova. Il 20 giugno 1990, François Mitterrand pronuncia davanti a trentasette presidenti africani riuniti alla Baule per la sedicesima conferenza dei capi di Stato d’Africa e di Francia un famoso discorso che trasmette un chiaro messaggio: “Il vento di libertà che soffia ad est dovrà inevitabilmente soffiare un giorno verso sud. Non c’è sviluppo senza democrazia né democrazia senza sviluppo”. Dopo avere esportato la sua bianca civiltà evangelica per oltre cent’anni, l’Europa esporta ora (con gli Usa) democrazia e liberalismo. I dinosauri africani alla Mobutu, usurpatori delle indipendenze, devono evolversi od estinguersi. E per sopravvivere ai venti freddi del nord-est, a malincuore essi aprono la stagione delle Conferenze Nazionali, dallo Zaire al Congo, a Gabon, Mali, Togo e Niger. Esse coincideranno con la nascita del multipartitismo in Africa.
La particolarità del genocidio ruandese sarà proprio la grande partecipazione delle masse dei civili Hutu allo sterminio. Il crimine che i nazisti tropicali avevano deciso di commettere al fine di conservare il loro corrotto potere era troppo grave, e non doveva rimanere “Nessuno a raccontare la storia”. Bisognava dunque uccidere anche le donne incinte ed i bambini, per “non ripetere gli errori del 1959”, quando erano stati gli uomini (soprattutto l’aristocrazia Tutsi) ad essere le principali vittime di quella prima ondata di massacri. Il risultato della “clemenza” degli Hutu di quel tempo era infatti stato, nel 1990, l’invasione del Ruanda da parte dei rifugiati Tutsi del Fpr. Fu così che tra l’aprile ed il luglio del 1994, tra 800.000 e un milione di civili Tutsi e Hutu moderati, uomini, donne e bambini, furono uccisi in 100 giorni, al ritmo di 10.000 al giorno. Si stima che tra 250.000 e 500.000 donne siano state violentate durante il genocidio; molte di esse sono state successivamente uccise o sono perite per via della brutalità degli stupri; il 67% delle vittime di violenze sessuali ha contratto l’AIDS; 75.000 sopravvissuti sono rimasti orfani e almeno 20.000 bambini risultato delle violenze sono venuti al mondo.
Le donne Tutsi furono dunque vittime di uno specifico piano di distruzione: l’umiliazione, la tortura, la morte, e, in caso di sopravvivenza, una mortale malattia nella solitudine, nella fragilità e l’abbandono.
E le donne Hutu? Cosa pensavano, cosa dicevano, cosa facevano, mentre i loro uomini per oltre tre mesi uscivano ogni giorno a “lavorare” tornando poi a casa con le mani grondanti di sangue? Rimasero quietamente ad aspettarli, a preparare loro la cena, da umili e devote spose Hutu, o uscirono a loro volta ad uccidere i loro vicini di casa Tutsi? Cercheremo di rispondere a queste domande nella seconda parte di questo articolo che sarà pubblicata nei prossimi giorni.