Chi oserebbe mai revocare in dubbio che il “sistema” che garantisce al meglio la capacità di tenere insieme la libertà delle persone e la giustizia della società, cioè la capacità d’agire, sia quello che permette ad ogni cittadino di dare il migliore contributo, che si esprime in termini di merito, talento, cura, attenzione, creatività? Chi mai negherebbe che la politica che riesce a far emergere, a dare strumenti e regole, a organizzare la capacità d’agire degli individui sia la migliore politica, in quanto permette alla società di crescere, di svilupparsi come un organismo sano e in armonia?
Certamente nessuno. Eppure, solo Raffaele Itlodeo (letteralmente: “venditore di bugie”), voce narrante del Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia, di Thomas More, pubblicato in latino aulico nel 1516, afferma che un simile “sistema” sia esistito, ma nell’isola di Utopia (dal greco ou più topos: luogo che non può esistere). Molto più facile, invece, è trovare descrizioni molto realistiche del “sistema”, inteso come ordinamento che non ne ammette altri, imposto dalla coazione fisica o dalla pressione sociale.
Esemplare, in tal senso, il passo del De curiae commodis, in cui Lapo di Castiglionchio, detto il Giovane, dove si descrivono le specificità, in un’epoca “tanto sciagurata e corrotta”, quale quella nella quale il dialogo viene concepito, Anno Domini 1438, della Curia romana. Qui, “scelleratezze, infamie, frodi e menzogne hanno nome di virtù, mentre la virtù, la probità, i retti studi, le arti oneste, non solo non hanno alcun premio, ma non trovano neppure un posto”: “Dovunque”, si legge nel libello del Segretario apostolico, “regnano e dominano sugli altri gli ignoranti, gli sfrontati, gli scialacquatori, i sordidi, i furfanti. I buoni, i dotti, i puri, i moderati, i modesti, i temperanti giacciono depressi, cacciati, disprezzati. E non solo vengono allontanati dal governo delle cose di maggiore importanza, come se fossero perniciosi ed esiziali, ma vengono addirittura cacciati da ogni luogo come fiere terribili e truculente”.
I tempi cambiano come pure le tecniche, quel che resta sempre uguale a se stesso, poiché rinunciarci per il “sistema” significherebbe suicidarsi, è il progetto di dominio: le strutture, luogo naturale delle contese per il potere, restano sul fondo, dove lo sguardo arriva a fatica, insensibili agli eventi della storia politica e aperte, piuttosto, a ogni possibile soluzione.
Che il “sistema” non sia un’astrazione, lo si vede dal primato storico e logico del modello sull’individuo: l’apparato pone i tipi e seleziona gli individui i base al grado di conformità al tipo; ciò spiega la fortuna e la disgrazia; contano certo anche le circostanze, ma il fattore decisivo è la corrispondenza al modello. L’apparato soffre notoriamente d’una cronica penuria d’intelligenza: dovrebbe tenersi cari gli individui dotati, quando ha la fortuna di trovarne, tanto più che non soggiace a limiti di compatibilità ideologica, essendo dottrinalmente onnivoro; invece li carica a testa bassa, provocandoli al dissenso, poi la ribellione. Preferisce il suddito docile che, di raziocinio debole e propenso al disordine emotivo, può essere agevolmente manipolato: lo si fa reagire come si vuole e scaricare, senza chiasso, gli impulsi aggressivi, nell’interesse stesso del “sistema”, in varie attività formalmente regolate, come la delazione e l’intrigo velenoso, che servono ugualmente all’igiene sociale.
Il suddito, in fondo, crede quel che gli piace e ignora il resto, chiudendosi, per salvare le verità affettive, in una gabbia di disattenzione selettiva, affinché nel suo orizzonte entrino soltanto i fatti compatibili con i desideri: tratto tipicamente nevrotico della psicologia di massa, come spiega Sigmund Freud (Massenpsychologie und Ich-Analyse ist eine Schrift, 1921) è proprio la difficoltà di distinguere i sentimenti dai fatti, Quando, comunque, un’esperienza proibita sfugga al filtro, scatta il meccanismo repressivo della rimozione. Esclusi, tuttavia, certi avvenimenti dal mondo, bisogna aggiungerne altri immaginari. È così che comincia il lavoro di fabulazione e nulla è meno oggettivo della verità storica. Il passato è, infatti, una massa malleabile e ogni giorno se ne può fabbricare uno nuovo di zecca. Sul piano della psicologia collettiva l’operazione non presenta soverchie difficoltà, purché, oltre che degli archivi, si disponga pure dei cervelli.
George Orwell, in Nineteen Eighty-Four, romanzo dato alle stampe nel 1949, dove si narrano le vicissitudini di Winston Smith, funzionario di basso rango del “Ministero della Verità” della “macronazione di Oceania”, addetto alla modifica di testi, libri e foto del passato alterando la verità e ricreandone un’altra più adatta e confacente ai desideri del Partito Esterno, descrive “una sofisticata pratica mentale avviata già nell’infanzia e che si può immaginare concentrata attorno alle parole in neolingua stopreato, nerobianco e bipensiero”, che rende il suddito “refrattario e inetto ad approfondire troppo un qualsiasi argomento”, il cui “primo e più semplice stadio, che può essere insegnato anche ai bambini”, quello dello stopreato, “implica la capacità di arrestarsi, come per istinto, sulla soglia di qualsiasi pensiero pericoloso. Comprende anche la capacità di non cogliere le analogie, di non percepire gli errori di logica, di fraintendere le argomentazioni più elementari quando sono contrarie al Socing, oltre a quella di provare noia o ripulsa di fronte a un qualsiasi pensiero articolato che potrebbe portare a posizioni eretiche. In parole povere, lo stopreato è una forma di stupidità protettiva”.