Basterebbe dire che l’unica cosa guardabile in Zoolander 2 è il primo piano di Penelope Cruz con occhiali tartarugati. Perché il sequel demenziale del mondo della moda, e dei modelli, ideato nel 2001 da Ben Stiller (attore, regista e sceneggiatore) è cinema davvero mollemente e teneramente inutile.
Stiller e compagnia, assieme allo stuolo di superstar del cinema (Kiefer Sutherland, Susan Sarandon, Billy Zane, Benedict Cumberbatch) e della musica (Sting, Justin Bieber, Katy Perry, Mika) che lo accompagnano nell’operazione ‘seguito’, non sono dannosi di per sé alla salute dello spettatore. Di fondo non hanno la presunzione di saperla lunga o di mostrarsi geni comici. Semplicemente la tristezza e la risatina a mezza bocca che produce la visione di questo film amplifica, mostrandone la corda in nemmeno venti minuti, quella strada esile esile che Zoolander, capitolo 1, aprì inventando il plot dei modelli idioti, incapaci di comprendere doppi sensi e dimensioni altre del discorso, invischiati in situazioni di azione e pericolo modello James Bond. E di Bond qui in Zoolander 2 si riprende lo sfondo romano (soleggiato e notturno) per un altrettanto minuto sviluppo di scrittura che vede Derek (Stiller) e Hansel (Owen Wilson), il collega nemico poi amico, precipitati in una trappola ordita dall’acerrimo rivale Mugatu e Alexani Atoz.
La scintilla che riporta in passerella i due oramai maturi modelli, ritiratisi l’uno tra le nevi del nord Europa, l’altro in pieno deserto, sta nell’uccisione di celebri star (c’è perfino Bruce Springsteen) che prima di essere ammazzate si scattano un ultimo selfie con le labbra di Stiller strette strette quasi a cuoricino, l’espressione di Derek detta “Blue Steel”. L’Interpol Global Fashion, che ha i suoi uffici sotto lo store di Valentino a Roma, è diretta da Valentina Valencia (la Cruz), che appare subito in latex rosso da far spavento e che vuole risolvere il caso facendosi aiutare da Derek e Hansel.
Solo che i due modelli, stilosi e ridicoli nel loro abbigliamento kitsch, invecchiando sono diventati ancor più idioti. Il limite del personaggio di Derek Zoolander, tramutato in protagonista di un film per ben due volte, sta però proprio qui: nella sovrapposizione tra la sua idiozia e l’idiozia che soggiace all’intero film. Spesso e volentieri i due aspetti si confondono facendo sbandare Zoolander 2 in uno sterile e antichissimo metacinema parodico e demenziale.
L’ostentata necessità di mostrare, sequenza per sequenza, un parossismo citazionista (alla Ezio Greggio nel Silenzio dei prosciutti) che all’improvviso sbanda nel pecoreccio (il momento in cui la Cruz si lamenta delle sue tette naturali e Derek ha un erezione di cui non s’accorge) e nell’autocelebrazione delle star che interpretano se stesse stipate sul set. Se poi aggiungiamo che il segreto degli omicidi ai danni delle star nasconde un mistero che rievoca le tinte fantasy modello Trono di spade, l’operazione rimasticazione di espressioni, visioni e etichette del più recente pop si fa completo. Zoolander 2 diventa un compendio di tutto quello che è accaduto di bizzarro nel mondo della moda, del cinema, e della falsificazione del reale negli ultimi 15 anni, reso mestamente demente (la passerella tra i rifiuti, i selfie dei morti e sulla spider con incidente spettacolare, perfino le terrazzate su Roma modello La Grande Bellezza). Solo che demenziale e parodia sembrano generi e linguaggi di per sé morti e sepolti, superati da un qualsiasi filmato su Youtube o da blogger particolarmente brillanti.
La versione italiana del film riesce anche a peggiorare il risultato con un doppiaggio che inanella espressioni come ‘figoso’, ‘stica’, ‘togo’, ‘gnagnarbobo’. Tutto in Zoolander è terribilmente fuori posto, fuori tempo massimo, e fuori moda. Compresa la confessione, al contrario, del monaco Sting: “È vero che ha fatto sesso per dieci ore di fila?, “No comment, ma erano 15”.